Il corpo condizionale.

Corpo e performance: la performance come studio dell’area e dei limiti della sfera delle possibilità (prima ancora che culturali) corporee; fisiologiche, quindi espressive, in relazione allo spazio e alle cose, manipolate o aggirate. Questa sfera invisibile appartiene e circoscrive ciascuna di noi. Nella vita quotidiana facciamo esperienza di scoperte e usi di questa sfera, tendenzialmente parziali: geneticamente e poi culturalmente portate a raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo, ripercorrendo strade già battute che si sono rivelate efficaci.

 

[Le immagini seguenti ripercorrono 100 anni di rappresentazioni di corpi, dal 1886 al 1978]


Edgar Degas, “La tinozza”, 1886.

Pierre Seurat, “Giovane donna che si incipria”, 1888.

 

Dei territori inesplorati, di questa sfera, immaginiamo, ci diciamo: se volessi, se provassi, se mi allenassi, forse potrei spingermi oltre. Ma solo alla prova dei fatti si scoprono aree inesplorate e confini di questa sfera. Può accadere allora che, forzandosi, si arrivi al limite della propria sfera, oltre il quale non è fisiologicamente possibile spingersi; ed è un’esperienza traumatica e illuminante, in una parola: epifanica. Si sbatte il naso contro un limite organico, fisico, contro le leggi di questa parte di universo.

 


Edvard Munch, “Il giorno dopo”, 1894.


Pierre Bonnard, “L’indolente”, 1899.

 

Un braccio non potrà piegarsi più di così, una schiena non potrà arcuarsi oltre, il proprio peso non potrà essere sorretto da quel polso, e così via. Allo stesso modo, l’espressione corporea – il linguaggio del corpo – arriva al suo limite: le possibilità comunicative si ridimensionano, si apprende del limite non solo del linguaggio conscio, ma che anche quello inconscio, il linguaggio del corpo, ha il suo confine.

 


Umberto Boccioni, “Quelli che restano”, 1911.


Otto Dix, “3 donne”, 1920.

 

Scoprire di avere (di essere) dei limiti alle possibilità corporee ed espressive – se avviene, per impegno e fortuna – è un trauma con il quale fare i conti. Però: se è vero che non possiamo fare esperienza di tutto lo spazio che va da 1 a infinito, tuttavia possiamo muoverci nelle infinite frazioni tra 0, non esserci, e 1, il nostro limite. Questa è la sfera delle possibilità espressive corporee, ed è un modo possibile di definire le arti performative: muovere il corpo, esplorare la sfera, e veicolare un messaggio, nell’infinito che sta tra 0 e 1.

 

La performance prevede un corpo: con le sue profondità insondabili, o che vorremmo tali, perché insopportabile il pensiero che possa essere matematicamente dato, nella semplice somma totale delle sue parti.

La performance prevede un corpo, sebbene sia un ritaglio incerto di una porzione di spazio; vuota, ma non di fantasmi, di relazioni con le cose, anche scolpite nella memoria muscolare, prima ancora che in quella neurologica.

 


Christian Schad, “Portrait du comnte St-Genois”, 1927.


Cagnaccio di San Pietro, “Dopo l’orgia”, 1928.

 

La performance prevede un corpo, ribollente la pelle come confine, abito indossato a salvaguardia dell’io; quando invece e forse tutto il dentro è fuori, e tutto il fuori è dentro. Un calzino rivoltato. Spesso spaiato.

La performance prevede un corpo, per abitudine, usucapione, conosciuto quel tanto che basta per riempirlo di sé, di quello che vogliamo sapere di essere, educatamente / riottosamente inserito in un contesto: semafori, portare il cibo alla bocca con la forchetta, sapere a memoria il proprio codice fiscale. Farlo funzionare efficacemente, questo corpo, in relazione ad altri corpi.

 


Antonio Donghi, “Donna al caffè”, 1931, e Cristina Gazzola, 2020.


Edward Hopper, “Escursione nella filosofia”, 1954.

 

La performance prevede un corpo, nel suo essere abitato e abbandonato: lasciato da solo, finalmente precipitato dentro l’inefficace dicotomia del sé cosciente e del sé incosciente, nelle sue funzioni biologiche che lavorano sommessamente e instancabilmente nell’altra stanza, della chimica che non sia accetta come commensale alla tavola imbandita della volontà, salvo quando bisogna darle la colpa, per una manchevolezza.

La performance prevede un corpo, abitato e abbandonato, nello spazio e nel tempo: cacciati dalla perfezione sferica e circoscritta del ventre materno, cadiamo in un universo senza limiti, troppo vasto per essere esplorato tutto (verso l’esterno e verso l’interno) nella quantità di fotogrammi che il tempo ci concede.

Affermazioni che un essere vivente non può pronunicare senza mentire:
Non sono nato
Sono morto

 


Yves Klein, “Antropometria del periodo blu”, 1960.


Renato Guttuso, “Vucciria”, dettaglio, 1974.

 

La performance prevede (alle volte) che un corpo, abitato e abbandonato, nello spazio e nel tempo, entri in relazione con le cose: silenzione e sicure di sé, costruite prima con lo sguardo e poi con le mani; ed immediatamente da esse siamo costruiti in quanto corpi, il martello fa la piega del polso che lo impugna, fa la prospettiva nel cervello del piantare un chiodo.

Se è innegabile che la nostra esistenza in quanto soggetti economicamente pensanti fa sì che anche la performance voglia arrivare da qualche parte, nella sequenza di passi un piede dopo l’altro sui gradini di una scala, l’afflato creativo che ci scorre dentro alle volte è la mano che gira attorno ad ogni gradino, e ne percepisce l’estraneità e l’imbarazzo.

 


Claude Cahun, 1927.


Urs Luthi, “Autoritratto”, 1977.

 

L’abitudine è la seduzione massima, la somma efficacia presuntuosa, l’oblio estremo delle possibilità di un corpo. Per percepirsi intere, è necessario trovarsi estranee, mettersi in difficoltà, doversi rinegoziare, trovare soluzioni diverse, sperimentare l’inefficacia, vedersi nuove di nuovo.

La disinvoltura è la mancanza di attrito sulla superficie delle cose, non ne percepisce la consistenza, respira preconcetti pregiudizi riassunti semplificazioni. Per percepirsi corpi, è necessario provare l’imbarazzo della gravità, della prima volta, della rigidità di un’articolazione, la sua estensione o il suo limite.

 

 

Osservare nello sguardo altrui le decifrazioni del proprio corpo durante o dopo una performance, mentre è attraversato dal linguaggio, mentre è parlato dalla sua biologia, mentre è cavalcato dalla sua cultura: fare quindi l’inventario del proprio bagaglio a meno, svuotarlo, esaminare ogni cosa che si trasporta inconsapevoli.

Ogni posa ha la sua sovrascrittura culturale e individuale. Prendere quindi coscienza che non si può stare, mai in nessun modo, senza comunicare consciamente inconsciamente qualcosa. Comprendere il linguaggio delle pose, rivalutarle, rivoltarle, sabotarle, è una delle possibili chiavi di lettura della performance.

 

 

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Altri percorsi.

 

Gabriella Calcagno.
La condanna di avere un corpo.
Il tempo degli hotspot
tra Foucault e Kafka.
Operaviva, 2017.

“Il nostro corpo non è innocente. Una delle peculiarità del potere moderno è stata quella di farsi carico dei corpi dei cittadini, di plasmarli e modellarli a proprio piacimento, dunque sarà necessario accordare maggiore attenzione all’esame della categoria della corporeità. Sarà inoltre necessaria una riflessione intorno lo spazio in cui questi corpi si trovano non solo ad agire e relazionarsi, ma anche a essere reclusi e puniti qualora la loro esistenza o condotta minacci le fondamenta dell’autorità cui sono sottomessi.”

“Non è un caso, allora, che un pensatore come Michel Foucault, cui spetta il merito di avere per la prima volta utilizzato il termine di biopolitica, abbia dedicato gran parte della sua carriera all’analisi dei dispositivi spaziali in cui il potere moderno e contemporaneo si esercita: dalle prigioni, passando per le scuole, fino ad arrivare alla clinica. È noto, del resto come Giorgio Agamben abbia a sua volta strutturato parte delle proprie teorie intorno alla nozione di campo, strumento irrinunciabile alla comprensione della particolare visione della sovranità avanzata dal filosofo italiano. Parallelamente, è all’utilizzo di categorie spaziali che si rivolgono Negri e Hardt quando, all’inizio di Impero, si ritrovano a dare una definizione dell’ordine globale contemporaneo, sottolineando come questo si avvalga di una nozione del diritto che si afferma nella costruzione di un nuovo ordine che abbraccia tutto lo spazio della civiltà, un illimitato spazio universale.

Prosegui qui la lettura.

 

Luca Mirarchi.
Autopsia di uno scandalo.
Le parole e le cose, 2016.

“Gli anni Ottanta continuano a dettare le linee. Patrick Bateman, icona del male assoluto e dell’inconsistenza della pop culture, ha continuato a cambiare pelle e risorgere. Ha assunto il volto e il fisico scolpito di Christian Bale nella trasposizione cinematografica di Mary Harron (2000); ha debuttato a Broadway nella primavera 2016 in versione musical per la regia di Rupert Goold[3]; nel 2013 il canale americano FX ha opzionato i diritti per trarne una serie TV. E si potrebbe continuare a lungo. Aggiungiamo soltanto, per ampliare il raggio, un romanzo di Mabanckou Alain del 2003, African Psycho, ripubblicato in Italia da 66th and 2nd lo scorso anno.”

“Perché un libro così estremo e respingente, quasi del tutto privo di trama, non facile da leggere e in molte parti prolisso (soprattutto nelle sue elencazioni ossessive di brand e celebrity), non è ancora scomparso dall’orizzonte dell’immaginario condiviso? Di sicuro non basta come spiegazione il fascino — in parte morboso — suscitato dal dilemma insolubile che accompagna chiunque si sia avvicinato a quel testo: le atrocità commesse da Bateman avvengono sul serio, o sono solo il frutto della sua mente psicotica? Da Kafka a Poe, da Roth a Svevo, non si tratta certo del primo narratore inattendibile nella storia della letteratura. E non è sufficiente nemmeno rifugiarsi nel dilemma morale: se i crimini commessi dal personaggio fossero solo immaginari, quanto sarebbe più tollerabile l’impunità del protagonista, visto che ogni tortura è oscenamente rappresentata in ogni minimo particolare? A livello percettivo, se ci si riflette, cambia poco o niente. Però si sta parlando pur sempre di un’infrazione delle convenzioni: la violazione dell’idea di giustizia che non viene redenta nel meritato castigo.”

Prosegui qui la lettura.

 

Marco Belpoliti.
Il corpo del capo ferito.
Nazione Indiana, 2009.

“Che cosa suggerisce la visione del viso insanguinato del Presidente del Consiglio? Quello di un uomo che ha subito un incidente, che si è rotto il labbro, che si è fratturato il naso, che sanguina copiosamente. Un accidente casalingo, un incidente d’auto, un’effrazione improvvisa e inattesa. Qualcosa di fortuito e casuale. In realtà, come sappiamo tutti per averlo visto nei telegiornali, o su You Tube, Silvio Berlusconi è stato colpito da un oggetto scagliato con forza da un uomo. Un attentato dissennato, dato l’oggetto usato per ferirlo – un souvenir, un simbolo della città di Milano in miniatura –, e vista la situazione. Un gesto folle, eclatante, assurdo. Un attentato in miniatura, si dovrebbe dire, perché non mortale, nonostante la situazione e il contesto, simile a quello di mille altri attentati a uomini politici negli ultimi due secoli: all’aperto, tra la folla, all’inizio o alla fine di un comizio. Qualcuno si sporge tra la massa dei sostenitori e compie l’atto fatale. Ma qui non accade.”

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Carlo Titomalio e Igor Vazzaz.
Il più grande performer vivente.
Antonio Rezza e Flavia Mastrella.
Mimesis Journal, 2013.

“Quando Rezza definisce “(non) scritti” i propri spettacoli, negando la possibilità di verbalizzare in un copione l’insieme di atti e parole offerto al pubblico, non lo fa per inserirsi nel solco di una moderna tradizione generatrice che fa a meno del testo scritto, quanto per ribadire la fondamentale interazione con uno spazio, con un’architettura scenica: interazione indescrivibile a parole, che non può essere restituita cioè attraverso il tradizionale binomio drammaturgico dialogo/didascalie. Piuttosto che scritto, lo spettacolo è dunque costruito a partire da un campo d’azione, vissuto e introiettato.”

“Più volte Rezza ha spiegato e difeso il metodo di lavoro cui si assoggetta, praticato con rigorosa disciplina e fondato sull’indipendenza delle due singolarità, senza gerarchie né condizionamenti reciproci. L’incontro tra gli scenari realizzati dalla Mastrella e il corpo di Rezza non è progettato a monte, ma si verifica per la prima volta durante le prove (si tratta solitamente di collaudi aperti a un pubblico fidato, che è parte del divenire dello spettacolo), quando si traduce immediatamente in uno scontro, un vincolo imposto alle infinite possibilità di movimento sul palcoscenico. È solo attraverso questo incatenamento che si delinea il tragitto della performance.”

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Performance.

 

Macchina.
Corpo, manichino.
Selezione di immagini da video.
Performance, 2022.

 

Un tavolo senza suggerimenti.
Corpo, tavolo, corsa circolare.
Performance, 2022.

 

Rimarginazione.
Mattoni, gravità, corpi.
Performance, 2022.

 

Finalmente, una giornata da pagliaccio quale sono.
Ritratti fotografici.
Corpo, naso rosso. Nell’arco della giornata,
ai passanti incontrati per strada è stato chiesto
di scattare le fotografie della performance.

 

Campo gravitazionale.
Pietra, corpo.
Trascrizione dei versi di Shakespeare.
Selezione di immagini da video.
Performance, 2022.

 

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8 risposte a “Il corpo condizionale.”

  1. […] Il corpo condizionale. Corpo e performance: la performance come studio dell’area e dei limiti della sfera delle possibilità (prima ancora che culturali) corporee; fisiologiche, quindi espressive, in relazione allo spazio e alle cose, manipolate o aggirate. Questa sfera invisibile appartiene e circoscrive ciascuna di noi. Nella vita quotidiana facciamo esperienza di scoperte e usi di questa sfera, tendenzialmente parziali: geneticamente e poi culturalmente portate a raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo, ripercorrendo strade già battute che si sono rivelate efficaci. […] […]

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  2. […] / 2007 d. C. – Il corpo taurino. / 2008 d.C. – Il corpo disassemblato. / 2009 d.C. – Il corpo condizionale. / 2011 d.C. – Il corpo certificato. / 2018 d.C. – Il corpo epidermico. / 2019 d.C. – Il […]

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  4. […] Il corpo condizionale. Corpo e performance: la performance come studio dell’area e dei limiti della sfera delle possibilità (prima ancora che culturali) corporee; fisiologiche, quindi espressive, in relazione allo spazio e alle cose, manipolate o aggirate. Questa sfera invisibile appartiene e circoscrive ciascuna di noi. Nella vita quotidiana facciamo esperienza di scoperte e usi di questa sfera, tendenzialmente parziali: geneticamente e poi culturalmente portate a raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo, ripercorrendo strade già battute che si sono rivelate efficaci. [Prosequi qui la lettura] […]

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  5. […] Il corpo condizionale. “Corpo e performance: la performance come studio dell’area e dei limiti della sfera delle possibilità (prima ancora che culturali) corporee; fisiologiche, quindi espressive, in relazione allo spazio e alle cose, manipolate o aggirate. Questa sfera invisibile appartiene e circoscrive ciascuna di noi. Nella vita quotidiana facciamo esperienza di scoperte e usi di questa sfera, tendenzialmente parziali: geneticamente e poi culturalmente portate a raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo, ripercorrendo strade già battute che si sono rivelate efficaci….” […]

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  6. […] Il corpo condizionale. “Corpo e performance: la performance come studio dell’area e dei limiti della sfera delle possibilità (prima ancora che culturali) corporee; fisiologiche, quindi espressive, in relazione allo spazio e alle cose, manipolate o aggirate. Questa sfera invisibile appartiene e circoscrive ciascuna di noi. Nella vita quotidiana facciamo esperienza di scoperte e usi di questa sfera, tendenzialmente…” prosequi qui la lettura. […]

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  7. […] ibernato. 2007 d. C. – Il corpo taurino. 2008 d.C. – Il corpo disassemblato. 2009 d.C. – Il corpo condizionale. 2011 d.C. – Il corpo certificato. 2018 d.C. – Il corpo epidermico. 2019 d.C. – Il corpo […]

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  8. […] ibernato. 2007 d. C. – Il corpo taurino. 2008 d.C. – Il corpo disassemblato. 2009 d.C. – Il corpo condizionale. 2011 d.C. – Il corpo certificato. 2018 d.C. – Il corpo epidermico. 2019 d.C. – Il corpo […]

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