Il corpo archiviato.
500.000 a.C. – 2023 d.C.
Abbiamo parlato, parliamo e sempre parleremo di corpi e da corpi.
A poterle contare, sono più numerose le volte che non sapevamo, non sappiamo e non sapremo di farlo; e sono quelle le occasioni in cui siamo state, siamo e saremo più sincere: da addormentate, per esempio, oppure nell’irreplicabile istante di un gesto spontaneo, che contiene la dimenticanza e l’assoluta coincidenza dell’essere un sé.
Più rare sono le occasioni per parlare di corpi, consapevoli di farlo, perché: abbagliate da un intento; annegate nel tempo; abitando l’architettura di una grammatica, con le sue parole da contrattare; nello scorrere di uno spartito musicale, da sinistra verso destra e non viceversa; nel margine di una fotografia, che taglia fuori dall’inquadratura e che cosa; nei ventiquattro fotogrammi al secondo necessari all’illusione di movimento; in una scultura che negozia la sua presenza con lo spazio; in un passo di danza che nel suo sollevarsi da terra già racchiude la sua discesa verso la massa immensa di questo pianeta, che lo attrae e lo intrappola, appunto, nel tempo.
Nel tempo: dei corpi primitivi restano ossa, graffiti, impronte nel fango indurito. Dei corpi antichi raffigurazioni pittoriche, scultoree, descrizioni in prosa o in poesia. Dei corpi moderni restano fotografie, audio, biografie, profili psicologici, radiografie. Dei corpi contemporanei, simulacri digitali e flussi di big data.
Nessuno di questi corpi avrebbe mai potuto immaginare che, a distanza di millenni oppure di pochi istanti, da ciò che resta di loro, altri corpi avrebbero fatto ipotesi e tratto conclusioni. Pare – perché chi fa ricerca non è estranea alla gara al primato – che le raffigurazioni più antiche di corpi siano il Lion-man di Hohlenstein-Stadel e la Venere di Schelklingen, entrambe risalenti a 40.000 anni fa.
Parimenti, si dibatte su quale sia stato il primo selfie della storia: quello di Anastasia Nikolaevna, figlia dello zar di Russia Nicola II; oppure quello di Robert Cornelius, imprenditore e fotografo statunitense. Entrambi gli scatti sono datati 1839.
C’è invece chi sostiene che si può parlare di primo selfie della storia solo nel momento in cui si è coniata la parola per definirlo: Paris Hilton ne rivendica il primo uso, in uno scatto insieme a Britney Spears, del 2006; ma la BBC afferma che il termine è apparso per la prima volta quattro anni prima, nel forum australiano ABC Australian Broadcasting Corporation: “Um, drunk at a mates 21st, I tripped ofer and landed lip first (with front teeth coming a very close second) on a set of steps. I had a hole about 1cm long right through my bottom lip. And sorry about the focus, it was a selfie”, scriveva un certo Nathan Hope. Intervistato, però, prende le distanze: “It was not a word I coined. It’s something that was just common slang at the time, used to describe a picture of yourself. Fairly simple.”
Nel 2013 l’Oxford Dictionary dichiara selfie parola dell’anno.
Forse molto, se non tutto, avviene perché siamo comprese (nella visione) tra due limiti del nostro corpo: il disgregarci con esso – oppure no – quando verranno meno le sue funzioni vitali (almeno, quelle che danno supporto all’io: la sua esistenza biologica, in senso lato, proseguirà nel ciclo della materia organica a disposizione dell’universo); e la nostra comparsa (la nostra nascita) in un corpo, come corpo, consapevole; e se questa consapevolezza sia reale oppure un’illusione utile alla sopravvivenza. Tra questi due estremi avvengono il piacere e il dolore, il ricordo e la speranza, e per i corpi più fortunati anche l’amore, il cui rovescio della medaglia, più alla portata di tutti, potrebbe essere l’odio, altre dicono l’indifferenza; e il bilancio, incerto, tra quanta ne somministriamo e quanta ce ne viene somministrata.
Secondo alcune teorie, ci sono due movimenti di indagine umana: finché sulle mappe c’erano territori inesplorati – la dicitura era hic sunt leones – allora l’esplorazione era verso l’orizzonte, il lontano, il fuori, l’esterno. Venute a sapere che il pianeta è sferico, e non c’è modo di trovarne il limite, abbiamo rivolto il nostro cartografare ai territori interiori, al dentro, al sé. Poi di nuovo verso l’esterno, quando è sembrato possibile abbandonare questo pianeta per andare verso le stelle e i confini dell’universo. E poi ancora e di nuovo verso l’interno, di fronte all’inappellabile severità delle distanze siderali. È decisamente una semplificazione e nessuna vorrebbe suddividere un libro di storia in questo modo; e oggi è molto più sensato indagare le infinite relazioni tra il dentro e il fuori, e se questo corpo sia dentro oppure fuori di me, e se la pelle sia un confine oppure una convenzione, e quanto ci sia del “là fuori” nel mio io, e quanto del mio “io” ci sia là fuori, e se abbia ancora senso questa dicotomia.
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Lion-man di Hohlenstein-Stadel. Wikimedia Commons licenza CC-BY-SA-4.0 2013. “Some researchers have ascribed sexual characteristics to the object. Initially, the figurine was classified as male by Hahn who suggested a plate on the abdomen could be a flaccid penis. Schmid later classified this feature as a pubic triangle; however, from examination of new parts of the sculpture, she proposed that the figurine was that of a woman with the head of a Höhlenlöwin (female European cave lion). Male European cave lions often lacked distinctive manes, so the absence of a mane could not determine categorically that the figurine was that of a lioness, and a debate about its sex ensued among some involved in the research and the popular press. Kurt Wehrberger, of the Museum Ulm, stated that the statue had become an icon of the feminist movement.” Fonte: Schulz, Matthias, Puzzle im Schutt, 2011.

Venere di Schelklingen. Secondo alcuni, le cosiddette Veneri paleolitiche non sarebbero simboli di fertilità o bellezza, ma rappresenterebbero ciò che all’epoca era molto difficile ottenere: un corpo ben nutrito. “Figurines of women with obesity or who are pregnant (Venus figurines) from Upper Paleolithic Europe rank among the earliest art and endured from 38,000 to 14,000 BP (before present), one of the most arduous climatic periods in human history. We propose that the Venus representation relates to human adaptation to climate change. During this period, humans faced advancing glaciers and falling temperatures that led to nutritional stress, regional extinctions, and a reduction in the population.” Fonte: R.Johnson, M.Lanaspa, J.Fox, Onlinelibrary wiley 2020.

Anastasia Nikolaevna, figlia dello zar di Russia Nicola II. “Per immortalarsi sfruttò una Kodak Brownie S1, la prima Brownie immessa dalla Kodak sul mercato. […] L’autoscatto lo fece per inviarlo a un amico via lettera (o amica, non è ben chiaro). […] L’ombra bianca e in movimento che si scorge sulla sinistra è probabilmente la figura di un membro femminile della famiglia reale o di una istitutrice che sedeva poco distante dalla bambina e che ha avuto la sventura di muoversi proprio nel momento dello scatto.”

Robert Cornelius (1809 – 1893). Dagherrotipo, 1939, Filadelfia. Library of Congress, Prints and Photographs Division. “Corrnelius’s failure to achieve a perfect or unblemished portrayal of himself results from the delay required for the exposure and development of the latent image; this problem of time in the making of the image informs his need both to jump in front of the camera and to capture his own image without being able to see the outcome.” Fonte: S.R.Meehan, Mediating American Autobiography, 2008



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Performance.
In senso lato.
Bollette, multe, parcelle.
Autoritratto, 2023.
Fare i conti.
Corpo, pallottoliere.
Autoritratto, 2023.
Autoritratto.
Alginato, gesso alabastrino. Pianta di calamondino, chiave USB con file .pdf del “De rerum natura” di Lucrezio, calco in gesso di ombelico.
Installazione, 2019.
Scrivi una risposta a Pelle. Primo e secondo studio. Work in progress. – Roccioletti Cancella risposta