Secondo Jan Pieper, il mito del labirinto nasce dai sentimenti di paura e fascino che il nuovo modello cittadino minoico indusse nelle popolazioni indo-germaniche, prevalentemente nomadi o rurali: un luogo dove il concetto di centralità e periferia, orientamento e disorientamento erano completamente diversi da quelli esperiti prima di allora. Dalla caverna ai primi aggregati abitativi, ritagliati e assediati da ambienti vasti e naturali, la città è un salto prospettico notevole, per i corpi, il loro stare, la loro possibilità di movimento, la concezione di essi stessi in relazione con gli altri, oppure con il potere e la burocrazia.

Mappa del mondo nello stile di Piet Mondrian.
Oggi possiamo osservare con grande precisione la città dall’alto (aerei, droni, satelliti) e ne costruiamo modelli teorici e predittivi. È la visione dal luogo del volo: prima solo immaginata (sognata), poi resa possibile dalla tecnica, con i propri occhi a bordo di aeromobili (gap sociale tra chi poteva permetterselo e chi no), infine come corpi immobili sui nostri dispositivi mobili (GoogleMaps). La geolocalizzazione ci trasforma in una certa quantità di dati, e certifica la posizione del nostro corpo nello spazio, ad uso nostro ed altrui.

L’artista tedesco Simon Weckert ha hackerato Google Maps simulando un ingorgo stradale con 99 smartphone. I telefonini, trascinati a mano in un carrellino per una strada in realtà deserta, lanciano un segnale GPS che fa credere alla app che su quel tratto urbano di Berlino siano presenti 99 autoveicoli.

Nel primo numero del bollettino dell’Internazionale Situazionista, pubblicato nel 1958, la psicogeografia viene definita studio degli effetti precisi dell’ambiente geografico, disposto coscientemente o meno, che agisce direttamente sul comportamento affettivo degli individui. In questo senso la psicogeografia si inserisce nel filone del determinismo ambientale, che era nato già con Friedrich Ratzel a metà Ottocento, per cui le relazioni tra ambiente e natura sono considerate e analizzate in maniera univoca, ovvero dalla natura/architettura all’uomo e non viceversa.
Per le antiche popolazioni nomadi o contadine, lontanissime dalle nostre concezioni geografiche e sociali di spazio e mappa, la città è stata uno shock culturale ed esistenziale: il concetto di labirinto, nato insieme a quello della città oppure sovrapposto ad essa e derivante da archetipi più antichi, è la metafora narrativa, grafica, coreografica, estetica, di un nuovo ed inedito modo di stare al mondo, e in mezzo ad altri corpi. L’esperienza del perdersi (casuale, oppure cercata come rito di passaggio) in un ambiente naturale ha una nuova possibile forma: quella dello smarrirsi in un luogo costruito, in un centro abitato, lo stesso che dovrebbe essere la propria casa, il proprio luogo familiare, sicuro. Smarrirsi, a casa propria; e non nella solitudine, ma in mezzo ad una moltitudine di sconosciute.

Convergenze. Performance collettiva, 2019. E’ stato chiesto a diverse persone di tracciare su carta il percorso dalla loro abitazione al luogo di lavoro. I loro itinerari, con le loro geografie mentali, sono stati accostati alle rispettive fotografie satellitari tratte da Google Maps.
E’ possibile indagare il concetto di labirinto, e del corpo che lo attraversa, con diverse chiavi di lettura (interpretazione e disinnesco). Il labirinto più noto è quello di Cnosso, secondo la mitologia greca fatto costruire da Minosse sull’isola di Creta, per rinchiudervi il Minotauro (cfr. #labirinto e #minotauro). L’etimologia della parola viene ricondotta all’ascia bipenne, la labrys, raffigurata sulle pareti del palazzo; secondo alcune teorie, legata al potere regale, secondo altre di origine cultuale. Tuttavia, il perché dell’ascia bipenne come simbolo è ancora sconosciuto, e si contano numerose interpretazioni, più o meno fantasiose e suggestive. Semplice oggetto, tipico della cultura minoica, oppure forma che rimanda ad altro: al profilo delle navi cretesi, alle polene ornitomorfe molto simili a quelle di età ancora più antica, quando la gru era simbolo di morte e rinascita; uccello migratore, che si allontana e sparisce, per poi tornare l’anno successivo, simbolicamente, dal regno dei morti.

Raffigurazione di imbarcazione con protome ornitomorfa, 5.000 a.C., Bergheim (Norvegia).


Secondo Vanni Saponaro (2023), “Per capire da dove potrebbe scaturisce il simbolo dell’ascia bipenne e quindi cosa potrebbe simbolizzare, si provi a immaginare di costruire un rudimentale osservatorio astronomico piantando un palo nel terreno, quello che gli astronomi chiamano uno gnomone, uno dei primi strumenti astronomici utilizzati dall’uomo sulle navi. Se si osservasse l’ombra proiettata dallo gnomone durante un intero anno solare, si noterebbe che essa interessa un’area che ha la forma di un’ascia bipenne. Da notare che la figura che si forma è racchiusa da due archi contrapposti, o se si vuole da due corna contrapposte.”

Frammento di dipinto su sarcofago minoico.
Non é un caso che la danza tipica che attraversa il labirinto, raffigurata su pareti e vasi, dove le partecipanti si tengono per mano (Teseo in testa fino al centro del labirinto e poi a riavvolgere tutta la fila fino all’uscita) sia chiamata “geranòs”, danza delle gru. Il labirinto come luogo rituale di morte e rinascita per i corpi, e la danza come modo per venirne fuori (cfr. la danza macabra).

Dettaglio del Vaso di François, 570 a.C.

Ludwig Weniger, ricostruzione dello Scudo di Achille, 1912.
“Qui giovani e giovinette danzavano tenendosi le mani per il polso: queste avevano veli sottili, e quelli vestivano tuniche ben tessute, brillanti d’olio soave; ed esse avevano belle corone, questi avevano spade d’oro, appese a cinture d’argento; e talvolta correvano con i piedi sapienti, agevolmente, come la ruota ben fatta tra mano prova il vasaio, sedendo, per vedere se corre; altre volte correvano in file, gli uni verso gli altri. E v’era molta folla intorno alla danza graziosa, rapita; due acrobati intanto dando inizio alla festa roteavano in mezzo” (Iliade, XVIII, 478-607)
La danza antica, come già approfondito in questi articoli, ha origine e parallelo nel movimento cosmico, quello delle stelle: sequenza di gesti e spostamenti predeterminati, cosmetici ma nell’accezione etimologica di cosmos, ordine. Nel caso del labirinto senza bivi (a differenza del nostro, contemporaneo, a più strade, che racconta di tutt’altro sentire e cultura), Detienne nota come si tratti di un avvolgersi a spirale, e poi svolgersi nell’uscirne, da fuori al centro e viceversa, con i corpi che percorrono il cammino più lungo possibile nello spazio più breve. È un nodo: che si stringe e si serra, poi si allenta e si scioglie. Secondo alcune fonti, coloro che danzano il “geranòs” si tengono per mano, secondo altre ad una fune. È il filo di Arianna, che aiuta Teseo ad uscire dal labirinto.
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Se nella società nomade o contadina era comune il baratto, in città si usano le monete. La scelta di apporre la “mappa” del labirinto su una misura di valore ne ribadisce l’importanza: un corpo può trovare l’uscita, cioè trovare la soluzione, non solo in un rito che prevede la danza come attraversamento del mito, ma anche in una quantità di valore prodotta dal proprio lavoro; la ricchezza si accosta alla possibilità di sapere come è strutturato il labirinto, la città, la società; la mappa del centro abitato è lo scambio monetario. La ricchezza puntella il potere epistemico.

“Perdersi riequilibra i rapporti di forza tra soggetto e territorio” (Franco La Cecla).

Così come i corpi attraversano il labirinto e la città, allo stesso modo i corpi sono attraversati dal labirinto e dalla città: da sensazioni, visioni, negoziazioni tra il proprio sentire e quello istituzionale, e queste sensazioni hanno conseguenze non solo sulle scelte consce dei corpi, ma anche conseguenze organiche, biopolitiche (più che mai il termine polis qui è adeguato). Così come i corpi abitano il labirinto e la città, allo stesso modo sono abitati dalle mappe mentali del labirinto e della città, da ricordi ancorati a strade e incroci, da visioni e odori, da spazi verdi e da smog, dal rumore del traffico oppure dal silenzio, da interpretazioni di valore sociale di quartieri e piazze, da desideri di stanzialità oppure di fuga. I corpi comprendono la città, e sono compresi dalla città: compresi etimologicamente, presi insieme. Voice, exit: secondo una branca della sociologia, le due opzioni per esprimere il proprio disagio (esplicitandolo a voce oppure andandosene): dal labirinto si può uscire, oppure si può danzare e cantare per esprimerne la natura. Il modello sociologico non sembra prevedere la possibilità di “smontare” il labirinto, abbatterlo con la protesta.
Scrive Gianluca Solla in “Memoria dei senzanome” (2013): “E’ nell’immanenza dell’insurrezione che è ancora possibile pensare a un’appropriazione che non sia presa di possesso, ma un divenire la città che si attraversa, che si rivolta. Per questo la rivolta non sarà mai stata qualcosa da realizzare, quanto il tenersi prossimi, e più prossimi che mai, da parte dei rivoltosi, alla città, stretti come in un corpo a corpo. La propria città, la città appropriata ma non posseduta, diventa il proprio corpo: le energie, i movimenti, le accelerazioni e i rallentamenti che attraversano l’una, attraversano anche l’altro. La città è la carne delle vie, delle piazze, dei quartieri che ora si rivoltano e che si scoprono fatti della stessa materia: contro l’ordine e le ristrettezze imposte all’esistenza. […] Più che un evento che accade per le strade di una città, è una qualità della strada: è l’evento stesso della strada, il momento in cui la città si rivela e si concede finalmente per quello che è.”

“Corteo”, gioco di simulazione sullo scontro sociale in Italia negli anni ’70 (Mondadori Giochi, 1979). 2 giocatori o squadre, durata 3 ore. “Corteo” simula lo scontro fra un corteo di dimostranti e le forze dell’ordine in una città immaginaria. La mappa rappresenta il centro di una metropoli europea: ci sono i luoghi che hanno un valore in punti, determinato dalla loro importanza sociale, storica e politica, dai Palazzi della Politica alle sedi dei Partiti, da quelli della Finanza a quelli dei Media. Un giocatore manovra le pedine che compongono il Corteo di dimostranti, divisi nei vari gruppi politici e sociali tipici dei movimenti di insubordinazione sociale in Italia verso la fine degli anni ’70. Il Corteo, per sua stessa natura vulnerabile, ha regole di movimento e di attacco che lo rendono forte: deve raggiungere il maggior numero dei luoghi che sono i suoi obiettivi di gioco. Contro il Corteo si muovono le forze del Potere, Polizia e Carabinieri, che devono evitare che i manifestanti raggiungano i loro obiettivi e arrestarne il più possibile.

“Riot” è l’idea di un gruppo di italiani, che si sono finanziati grazie ad una raccolta fondi online. Il gioco simula il conflitto sociale aggiornato ai nostri tempi ed è solo l’ultimo di una serie di prodotti che puntano a coniugare realtà e simulazione. La polizia è schierata da una parte, ma i manifestanti stanno avanzando. Nel quartiere accanto però ci sono tafferugli fra due fazioni ostili, entrambe scese in piazza: anarchici e nazionalisti. Mentre armate di mediattivisti stanno riprendono quanto avviene per strada, un cyberattacco colpisce siti governativi. È l’Ucraina? L’Egitto? L’Italia? È il conflitto sociale nel XXI secolo, solo che ha preso una forma inaspettata: quella del gioco da tavolo.
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Performance.
Tempi di percorrenza
Scatti di alberi, stampa fotografica, collage.
Performance, 2019.

(not so) fictional places.
Digital performance, 2020.
Dedicated to Patrick Zaki.

L’artista attivista Dina Lampa ha aggiunto su GoogleMaps, in Egitto, due luoghi: Shady Habash Cultural Center, di fronte alla prigione di Tora dove morì Shady Habash (regista, 1995 – 2020, arrestato per aver realizzato il video di una canzone che sbeffeggiava il presidente egiziano); Libreria G.Regeni, di fronte alla National Security Agency egiziana, l’ultimo luogo dove fu visto vivo Giulio Regeni (1988-2016) secondo cinque testimoni oculari. La presenza di luoghi (anche fittizi) su GoogleMaps fa sì che chiunque passi nei paraggi di essi con la geolocalizzazione del cellulare attiva veda il luogo e gli venga chiesto di valutarlo. Inoltre il luogo è visibile ad una ricerca su GoogleMaps da qualsiasi angolo del pianeta.
La distanza con la quale ci misuriamo.
Metro a nastro. Luoghi di Torino.
Performance & installazione effimera, 2021.

Le città invisibili.
Corpo, proiezioni.
Selezione di immagini da video.
Performance, 2022.

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Altri percorsi.

Golden Axe (Sega, 1989). Nella versione arcade, se si completa il gioco, una sequenza finale mostra personaggi e nemici che prendono vita e corrono via dalla sala giochi verso la città.

Supermario (Nintendo, 1985). Il boss finale è indistruttibile, ma si può uccidere prendendo l’ascia bipenne alle sue spalle e tagliando il ponte sotto di lui.
Labirinti e spirali. Iconografia.








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Corpi.
Cronistoria per frammenti.
Rappresentazioni letterarie, pittoriche, fotografiche.

1807: “Non è infatti possibile il trovare maggiore perfezione, e grazie più seducenti siccome in questa giovine spagnola, che aveva di già fatti nascere i sentimenti della più viva ammirazione, allorché prima nella sala Polimniaca, e quindi nella casa del signor Generale Pully si compiacque la sera del 15 corrente di far sentire a poche, ma scelte e culte persone la prodigiosa sua voce. Alunna del rinomatissimo Crescentini, e sotto i Reali auspici degli Augusti Regnanti della Spagna potè nella sua Patria svolgere da principio, e sviluppare i germi di quella naturale, e sorprendente abilità, che possiede nella musica. L’organo della sua voce è veramente un incanto per soavità, per robustezza, e per una prodigiosa estensione di corde, essendo che dal sol basso al mi sopracuto, cioè per quasi tre ottave si fa essa sentire con una progressione sempre eguale in morbidezza, ed energia; ed allorquando con maestria somma ne rattempra soavemente la forza si direbbe che le grazie stendono in quel momento un velo leggiadro sull’organo della sua voce, facendo per tal modo succedere negli animi degli estatici ascoltanti una ineffabile dolcezza alla di già concepita maraviglia. Perfetto è il metodo, e lo stile del suo cantare simile, ed anche superiore a quello di cui sempre vivo lasciò in noi il desiderio il suo celebre maestro, allorché formò le delizie delle nostre scene. Tutto insomma concorre a situare questa singolare, ed amabile Spagnola nella classe delle più famose cantanti, che siansi giammai udite fra noi” (Il Redattore del Reno, 21 aprile 1807).
1827: Alessandro Manzoni, “I promessi sposi”
“Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d’inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio. Ma quella fronte si raggrinziva spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento. Queste cose non facevano specie alle due donne, non esercitate a distinguer monaca da monaca: e il padre guardiano, che non vedeva la signora per la prima volta, era già avvezzo, come tant’altri, a quel non so che di strano, che appariva nella sua persona, come nelle sue maniere.”

1841: Hippolyte Flandrin, “Ritratto del conte Felix d’Arjuzon”.
1854: Charles Dickens, “Tempi difficili”.
“Centinaia e centinaia di “mani” al lavoro in questa fabbrica; centinaia e centinaia di cavalli vapore. Conosciamo fino all’ultima unità quello che può fare una macchina, ma neppure tutti i contabili della tesoreria nazionale, messi assieme, riusciranno mai a calcolare quale sia la capacità di agire nel bene o di operare nel male, di amore o di odio, di patriottismo o di scontento, la capacità di corrompere la virtù in vizio o di esaltare il vizio in virtù, che si annida nell’animo di ciascuno di questi schiavi mansueti, con i loro volti composti e i gesti regolarmente scanditi. Nessun mistero nella macchina; un insondabile mistero perfino nel p umile di loro per sempre. E se sovvertissimo i sistemi dell’aritmetica che usiamo per stimare gli oggetti materiali e valutassimo con altre misure queste oscure entità ignote!”
1880: Emile Zola, “Nanà”
“Si faceva cader di dosso tutto, perfino la camicia; poi, completamente nuda, senza preoccuparsi di nulla, restava a lungo a rimirarsi. Era l’amore per le sue fattezze, era l’incanto per la seta della sua pelle e per la linea snella del suo corpo che la tenevano assorta nella contemplazione di sé stessa. Si mise ad esaminare attentamente altre parti del suo corpo, divertita, ripresa dalle sue curiosità di fanciulla viziosa. Era sempre una sorpresa, per lei, vedersi nuda, scopriva sempre qualcosa di sorprendente, aveva l’aria attonita e incantata di una ragazzina che scopre la pubertà.”
1881: Antonio Fogazzaro, “Malombra”.
“Si contemplò in quella tersa trasparenza sotto l’alto lume delle candele che le batteva sui capelli, sulle spalle, sul seno, e pareva rivelare una voluttuosa ondina sospesa in acque pure e profonde. Sotto i capelli lucenti il viso velato di ombra trasparente pendeva in avanti, sorretto al mento da una squisita mano chiusa, più bianca del braccio rotondo che si disegnava appena sul candore dorato del seno, sulla spuma sottile di trine che cingeva le carni ignude.”
1890: Oscar Wilde, “Il ritratto di Dorian Gray”
“Quando la sua giovinezza se ne sarà andata, la sua bellezza la seguirà e allora improvvisamente si renderà conto che non ci saranno più trionfi per lei, oppure dovrà accontentarsi di quei mediocri trionfi che il ricordo del passato renderà amari più di sconfitte. Ogni mese che passa la avvicina a qualcosa di tremendo. Il tempo è geloso di lei e combatte contro i suoi gigli e le sue rose. Il suo colorito si spegnerà, le guance si incaveranno, gli occhi perderanno luminosità. Soffrirà, orrendamente… Ah! approfitti della giovinezza finché la possiede. Non sprechi l’oro dei suoi giorni ascoltando gente noiosa, cercando di migliorare un fallimento senza speranza o gettando la sua vita agli ignoranti, alla gente mediocre, ai malvagi. Questi sono gli obiettivi malsani, i falsi ideali della nostra società. Deve vivere! Vivere la vita meravigliosa che è in lei! Non lasci perdere nulla! Cerchi sempre sensazioni nuove. Non abbia paura di nulla…”

1900: Edgardo saporetti, ritratto della moglie Antonietta.
1926: Luigi Pirandello, “Uno nessuno centomila”.
“- Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
– Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.
Mia moglie sorrise e disse:
– Credevo guardassi da che parte ti pende.
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
– Mi pende? A me? Il naso?”

1927: Josephine Baker a Les Folies Bergeres.
1928: D.H.Lawrence, “Lady Chatterley’s love”.
“E le parve di essere come il mare, nient’altro che scure onde che si sollevavano e accavallavano in un crescendo impetuoso, sicché piano piano l’intera sua oscurità fu in movimento, e lei divenne un oceano che rotolava la sua massa d’acqua scura, sorda. Oh, e molto più giù, in lei, gli abissi si separarono e si squarciarono, in lunghi marosi che si perdevano lontano, e poi, anche in corrispondenza del punto più sensibile gli abissi si separarono e si squarciarono, dal centro della tenera penetrazione, via via che il pistone sprofondava, sempre più a fondo; e lei, sempre più a fondo, sempre più a fondo si schiudeva, sempre più grevi i marosi di lei rotolavano lontano verso qualche riva, scoprendola.”

1941: Carol Rama, “Appassionata”.

1967: Jane Graverol, “L’École de la Vanité”.
1983: Alberto Moravia, “La cosa”.
“Come faccio a spiegartelo? Diciamo: come per assicurarmi con la mano che, nonostante la malattia, la vita è pur sempre lì, presente, pronta. Ma non vedo alcune relazione tra lui e i suoi genitali. Lui è, come dire? il depositario di qualche cosa che non è suo, un po’ come un soldato a cui è stata affidata un’arma per combattere. Ma l’arma non è sua. Qualche volta penso che appartenga ad un dio ignoto, diverso però da quello che le suore portano appeso al collo.”

1979: Sophie Calle, testo della lettera di rottura, proiettato.
1991: Dacia Maraini, “Veronica, meretrice e scrittora”
“Dov’è lo specchio, sorella! Dov’è lo specchio! Devo specchiarmi, sorella, devo specchiarmi…dov’è quell’accidenti di specchio, dov’è? Mi hanno tolto tutto, questi maledetti. […] devo guardarmi in faccia…devo…lo, se perdo la faccia, sorella, perdo tutto: la casa, i vestiti, la tavola…ogni cosa, ogni cosa è legata a questa faccia di donna…dove l’avete messo il mio specchio, per la madonna!”

1995: Lucian Freud, “Benefits supervisor sleeping”.

1997: Spencer Tunick, “Nevada”.
2017: Simona Vinci, “Parla, mia paura.”
“Il corpo, ultimo residuo della vitalità e del possesso: il corpo lo abbiamo tutti ed è forse l’unico potere che ci è rimasto. Quando non si può più agire su nulla, sul corpo si può ancora.”

2018: Chiara Enzo, “Claustrale (particolare)”.

2019: Andra Ursuta, “Void fill”.
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