Il corpo elevato.

L’architettura ha avuto ed ha un impatto culturale e sociale, ma anche un’influenza sul biologico e sul percettivo dei corpi rispetto a se stessi, agli altri corpi e allo spazio, nella concezione di sé e della realtà.

Per i corpi, il loro stare e abitare lo spazio, nel corso dei secoli si è passate – progressivamente e a diverse velocità – da un modello orizzontale e circolare (il focolare, la jurta) ad un modello verticale (i palazzi, i grattacieli). Di pari passo si sono evolute le strutture culturali gerarchiche e le capacità tecniche, come mano armata della razionalità economica (massimo risultato con minimo sforzo, ottimizzazione delle risorse scarse) e inconscio tecnologico incorporato (lo strumento che non solo consente un certo ammontare di usi predeterminati, ma già contiene al suo interno il risultato che vuole ottenere).

 

Se nel modello orizzontale circolare c’è un epicentro verso il quale gli sguardi dei corpi presenti sono indirizzati, e tra corpi ci si percepisce tutti alla stessa altezza, ci si trova e ci si vede in presenza uno accanto all’altro oppure specularmente dall’altro lato della circonferenza, nel modello verticale i corpi sono disposti uno sopra l’altro, si sa (anche senza vedere) che sopra la propria testa ci sono i piedi (l’appoggio, idealmente) di altri corpi, in una forma che ricorda non più una catena bensì una piramide alimentare (cfr. il geranos, il labirinto e la danza macabra).

 

Roccioletti
La forma fallica del grattacielo del Quotidiano del Popolo, la principale macchina di propaganda del Partito Comunista, a Pechino, durante la sua costruzione. A causa dei commenti ironici, per un certo periodo la censura di regime fece in modo che i risultati sui motori di ricerca venissero oscurati, rendendo impossibile trovare informazioni o reperire immagini della costruzione.

 

Gli Stati Uniti sono stati il primo paese ad esprimere i principi della modernità nella forma del grattacielo. Se pensiamo a New York, a Chicago e ad altre città USA protagoniste delle notizie dei media, il grattacielo ne è un’icona ricorrente, nei servizi televisivi o nelle immagini a corredo degli articoli su stampa online e offline.  Non è un caso che i terroristi abbiano scelto di colpire le Torri Gemelle, in un atto ad un tempo di guerra nel suo causare vittime, e simbolico nel suo potenziale mediale e virale. L’uso di due aerei di linea a breve distanza di tempo l’uno dall’altro asserve a questa logica: al primo impatto tutte le telecamere del mondo puntano il loro sguardo (lo sguardo di chiunque, a reti unificate) verso il luogo del disastro. Il secondo impatto avviene, ovunque, “in diretta”.

Scrive Alessandro Beltrami: “Ci sono diverse versioni su cosa avrebbe detto Karlheinz Stockhausen sull’attentato alla Torri Gemelle: un capolavoro cosmico, la più grande opera d’arte possibile in tutto il cosmo o ancora il capolavoro di Luzifer. Il suo discorso, semplificato dai media, scatenò indignazione. Parole incomprensibili per una società stordita dallo choc. Ma a distanza di venti anni appaiono più chiare: l’attentato dell’11 settembre è stata un’operazione così assurdamente grandiosa, così curata nei dettagli e perfettamente eseguita, pensata interamente in funzione della sua dimensione visiva – consapevole delle regole dell’estetica della società di massa – e così caratterizzata dalla dimensione sacrificale da apparire come una performance rituale di impatto planetario. La distruzione del World Trade Center non è stato un semplice attentato: nella sua dimensione collettiva, portata su una scala impensabile, tanto nell’attuazione quanto nella ricezione (verrebbe da dire persino contemplazione) investe il campo del rito, nella sua accezione più cruenta e ancestrale. E nel sacro deve essere ricondotto per essere compreso ed elaborato.”

 

Roccioletti

 

Roccioletti
Maurizio Cattelan, “Blind”, 2021. Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano.


Gerhard Richter, Settembre, 2005. Olio su tela, 52 cm x 72 cm. MOMA, New York.

 

La costruzione di un grattacielo, se dal lato degli architetti e degli ingegneri sociali ha ragioni d’uso dello spazio in verticale per densità abitativa, dall’altro è ambito e ambìto dalla politica per attestarsi nel novero dei potenti “che sono stati capaci di costruire un edificio tale”. Secondo alcune, simbolo così evidentemente fallico, il grattacielo è metafora della gara al miglior attributo maschile; per altre, storicamente collocato dopo i palazzi dei sovrani del passato e i templi religiosi, il grattacielo è espressione dell’ambizione connaturata all’essere umane, oppure espressione della sostituzione o della sovrascrittura di gerarchie religiose e politiche sotto il segno dell’ideologia capitalistica.

 

 

Le parole chiave di ogni grattacielo al suo proporsi come progetto e al suo realizzarsi, prima nel dibattito pubblico sui giornali e poi nei fatti, sono: sviluppo, crescita, innovazione, risorse, persone, qualità della vita; si potrebbe aggiungere: potere, dominio, epifania nella materia del proprio potere, distacco dal suolo, dalla natura terrena, terrestre, terrosa.

Secondo Wincent Raca (artista misterioso, da alcune definito poeta visivo, secondo altre nome fittizio di un collettivo di artisti) è interessante notare come ad ogni grattacielo corrisponda da qualche parte (dislocato nel tempo e nello spazio, disembedded) uno scavo per estrarre le materie prime necessarie alla sua costruzione: nell’equazione della materia, che prevede che nulla si crei e nulla si distrugga ma tutto si trasformi, ad ogni palazzo artificiale costruito verso l’alto abbiamo altrove una cavità (o una sommatoria di cavità in più luoghi) che scendono verso il centro del nostro pianeta.

 


Veduta della metropoli dal fumetto “Judge Dredd”, di John Wagner e Carlos Ezquerra (1977).

Roccioletti
I grattacieli di “Dredd” di Pete Travis (2012). Ciascun edificio è indipendente e autosufficiente, e in caso di rivolte al suo interno diventa una trappola/prigione: le uscite e le entrate vengono sbarrate, e gli abitanti al suo interno restano isolati dal resto della città. Ogni condominio ha le sue strutture interne di potere, spesso gestite dalla malavita in modo autonomo rispetto al governo cittadino, che si palesa come giudice e boia solo quando è necessario contenere all’interno del singolo grattacielo la sua carica anarchica e insurrezionalista.

 

Roccioletti


Interno e veduta del “Ponte City Apartments” di Johannesburg (Sudafrica). Costruito nel 1975 e alto 185 metri, è il grattacielo residenziale più alto in Africa. Ha 55 piani e forma cilindrica, con un nucleo cavo che permette afflusso di luce all’interno degli appartamenti. Il centro dell’edificio, detto “the core”, ha come pavimentazione roccia naturale. Durante la seconda metà degli anni ’80 la classe media iniziò a spostarsi verso i sobborghi e il grattacielo vide aumentare la criminalità, diventando un luogo poco sicuro e facendo dell’edificio un simbolo del degrado urbano.

 

Nel nostro 2023 come risultato di sovrastrutture e sovrascritture simboliche e tecnologiche, i corpi contemporanei si trovano nell’abitare spazi determinati architettonicamente dal senso del mondo ereditato dall’episteme greca e cristiana. E’ quello che Emanuele Severino definisce raumgestaltung, la configurazione dello spazio: non ci si può muovere liberamente, viceversa ci si può spostare attraverso l’ambiente-edificio come in un’immagine solida dei valori e della cultura occidentale, tradotti prima geometria e matematica, poi in materia con le architetture urbane, infine con i grattacieli.

 


Ignazio Danti, visione panoramica di Venezia, 1536-1586.

Aglaia Bianchi, 2021: “Venezia, a differenza della maggior parte delle altre città, soprattutto in epoca moderna, non ha una periferia che permette di entrare in città in maniera graduale. A Venezia l’entrata avviene in un punto preciso, che per la nostra epoca possiamo identificare con la fine del ponte della Libertà, che definisce con precisione un dentro e un fuori. Nel 1824 il poeta tedesco August Graf von Platen scrive in un suo sonetto su Venezia:

Questo labirinto di ponti e calli,
Che si intrecciano in mille modi,
Come riuscirò mai ad attraversarlo,
Come risolverò questo grande enigma?

Il protagonista della novella Morte a Venezia di Thomas Mann, Gustav von Aschenbach, poco meno di un secolo dopo, si perde in questo labirinto, in una città in preda alla malattia. Il perdersi nella città malata rispecchia e amplifica il percorso di Aschenbach di perdita della propria identità e di malattia. Anche Iosif Brodskij, nelle sue Fondamenta degli incurabili, si sofferma sul carattere labirintico di Venezia e in particolare sui suoi numerosi vicoli ciechi: Qualunque meta tu possa prefiggerti nell’uscire di casa, sei destinato a perderti in questo groviglio di calli e callette che ti invitano a seguirle fino in fondo, ti lusingano e ti ingannano, perchè in fondo c’è quasi sempre l’acqua di un canale […].

Nel 1989 Il compositore Giuseppe Sinopoli, al ritorno a casa dal teatro della Fenice dopo una prova del Parsifal, è talmente immerso in riflessioni sull’Errare di Parsifal che si perde nel groviglio delle calli e decide di esplorare il labirinto veneziano. Ne nasce un romanzo-saggio pieno di riflessioni sulla simbologia del labirinto e di Venezia e con una cartografia precisa e affascinante del percorso labirintico di Sinopoli in quella notte.” (Prosegui qui la lettura)

 

Così come i corpi sono razionalizzati dalla burocrazia quale strumento chirurgico del potere istituzionale, nell’architettura del potere lo spazio dove questi corpi potrebbero muoversi ed evolversi viene prima assorbito (sottratto, espropriato alla collettività) e poi ricollocato in una categoria per un uso specifico; i movimenti di coloro che attraversano quello spazio sono già prestabiliti e in numero limitato, previsto.  Dunque ecco i luoghi di transito, dove è insolito o non-normale (non normato) sostare, le aree verdi e le rotonde non raggiungibili a piedi dai pedoni, estetica a posteriori rispetto all’uso della gestione del traffico dei corpi che usano veicoli per spostarsi.

 

“A partire dagli anni ‘20, a seguito della rapida espansione della tecnologia automobilistica, la filosofia progettuale si orientò nel senso di favorire velocità più elevate per l’attraversamento delle rotatorie, con conseguenti incremento del diametro dell’anello e allungamento delle zone di scambio. Venne mantenuta la regola del dare precedenza a destra, ritenuta utile anche per prevenire le collisioni all’ingresso. La maggiore lunghezza della zona di scambio, tra un’entrata e un’uscita successiva, venne adottata anche al fine di minimizzare i malfunzionamenti dovuti a problemi di congestione.” (Da “Progettare le rotatorie,  AAVV, 2006. Prosegui qui la lettura)

 

Salvatore Gioitta, 2014: “Oggi le opere d’arte vengono invece collocate nelle numerosissime rotatorie forse per l’ambizione di sindaci e assessori: si tratta delle porte della città, si dice, e dunque bisogna metterci dentro qualcosa per dimostrare il senso estetico dell’Amministrazione. E dentro le rotonde finiscono le cose più diverse: fontane, simboli legati al territorio, prati sintetici, frammenti di difficile interpretazione, micro giardini, lamieroni arrugginiti, rappresentazioni astratte, elementi di marketing territoriale di dubbio gusto come i monumenti dell’ars topiaria delle rotatorie pistoiesi…”

 

 

Dal 1968 ai movimenti di Occupy, nella sua declinazione Claim the Streets, è tema ricorrente la rivendicazione della restituzione ai corpi degli spazi adibiti solo a scopo produttivo o ad esso funzionale, e quindi anche la strada, intesa non solo come territorio esclusivo per le auto, ma da occupare e gestire e vivere in modo alternativo.

 

 

Nel 1975 J.G.Ballard pubblica “Il condominio”: costruito secondo le più avanzate tecnologie, è un edificio in grado di garantire l’isolamento ai suoi residenti, ma si rivela incapace di difenderli. Alto quaranta piani e dotato di mille appartamenti, è il teatro della generale ricaduta nella barbarie di un’intera classe sociale emergente: viene a mancare l’elettricità ed è la fine della civiltà, la metamorfosi da paradiso a inferno, la nascita di clan rivali, il via libera a massacri e violenza. Il condominio, con i piani più bassi destinati alle classi inferiori, dove via via che si sale in altezza si sale di gerarchia sociale, si trasforma in una prigione per i condomini che, costretti a lottare per sopravvivere, danno libero sfogo a un’incontenibile e primordiale ferocia.

Roccioletti  Roccioletti

Era trascorso qualche tempo e, seduto sul balcone a mangiare il cane, il dottor Robert Laing rifletteva sui singolari avvenimenti verificatisi in quell’immenso condominio, nei tre mesi precedenti. Ora che tutto era tornato alla normalità, si rendeva conto con sorpresa che non c’era stato un inizio evidente, un momento al di là del quale le loro vite erano entrate in una dimensione chiaramente più sinistra. Con i suoi quaranta piani e le migliaia di appartamenti, il supermarket e le piscine, la banca e la scuola materna – ora in stato di abbandono, per la verità – il grattacielo poteva offrire occasioni di scontro e violenza in abbondanza.

 

“Fantozzi subisce ancora”, Neri Parenti 1983. La riunione di condominio.

 

La riunione di condominio in “Il mostro” di Roberto Benigni, 1994.

 

Quando A. Von Schmarsow introduce il concetto di raumgestaltung pensa che il progetto che configura uno spazio per i corpi non sia una regola immutabile, ma accompagni il divenire della vita, le sue fasi, le sue modalità di espressione. La configurazione dello spazio non appare più come un valore assoluto, agganciato ad un concetto estetico slegato dal suo uso pratico, bensì come un’epifania degli scopi che i corpi si prefiggono. È il modo in cui si vuol vivere negli spazi interni degli edifici, la funzione, a determinare l’involucro, la forma. In questo senso, chi ha il potere di configurare gli spazi, controlla anche gli usi che i corpi possono farne.

 


“Trappola di cristallo” (Die Hard) di John McTiernan (1988).

 

Parallelamente, alcune notano come la costruzione del grattacielo permetta ai corpi – o almeno a quelli che hanno la possibilità e/o il diritto di stare ai suoi piani più alti – la visione del paesaggio circostante, conoscerne la struttura, la mappa, non attraverso una rappresentazione altrui oppure un modello teorico, ma dal vivo e in tempo reale. Secondo il Movimento Moderno dell’architettura, la città non è più chiusa in sé, senza vedere ciò che accade all’orizzonte (cfr. le mura delle città fortificate medievali) ma si apre e volge lo sguardo all’orizzonte, dove si estendono infiniti spazi incontrollati. Le strutture in ferro e vetro della città aperta rende possibile un’elevata permeabilità visiva tra interno ed esterno.

 

 


“King kong” di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack (1933).


“I fantastici 4 e Silver Surfer” di Tim Story (2007).


“La fonte meravigliosa” di Howard Roark (1949).

 

Un corpo, in cima ad un grattacielo, è simile ad un  monumento sul suo piedistallo: se gli obelischi, le opere scultoree o statuarie del passato ponevano in bella vista un frammento di storia da ricordarsi, il grattacielo è anche simbolicamente una colonna, abitata da corpi in forma simbiotica con la struttura architettonica, e salirvi in cima rappresenta la scalata della montagna ma in questo caso sociale, la sfida al cielo ma non nel percorso su una struttura geologica naturale, bensì su un artificio prodotto dall’intelletto e dalla tecnica.

 


Alex Honnold scala la Aspire Tower a Doha, Qatar (300 metri di altezza), in 1 ora e 33 minuti.

 


Il rooftopping: la nuova moda di raggiungere illegalmente la sommità di edifici molto alti, per scattare foto da postare sui social per ottenere visibilità.

 

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Altri percorsi.

 

Dino Buzzati,
“Sette piani”, 1937.

“Giuseppe Corte non desiderava nulla ma si mise volentieri a discorrere con la giovane, chiedendo informazioni sulla casa di cura. Seppe così la strana caratteristica di quell’ospedale. I malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il settimo, cioè l’ultimo, era per le forme leggerissime. Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo quelli per cui era inutile sperare. Questo singolare sistema, oltre a sveltire grandemente il servizio, impediva che un malato leggero potesse venir turbato dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano un’atmosfera omogenea. D’altra parte la cura poteva venir così graduata in modo perfetto. Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette progressive caste. Ogni piano era come un piccolo mondo a sé, con le sue particolari regole, con le sue speciali tradizioni. E siccome ogni settore era affidato a un medico diverso, si erano formate, sia pure minime, ma precise differenze nei metodi di cura, nonostante il direttore generale avesse impresso all’istituto un unico fondamentale indirizzo.”

Prosegui qui la lettura.

 

Fulvio Irace, 2007

“A Torino ammira la struttura della città, i suoi portici senza eguali in Europa, le sue strade; frequenta con dedizione i suoi caffè, dove assiste a concerti e operette, partecipa a funerali, fa la spesa dalle ortolane, viene coccolato dai camerieri e gusta «sottili tubicini di pane» (grissini) e la cioccolata («la più famosa d’Europa»). Si entusiasma davanti alla modernità della galleria Sabauda, scintillante di vetri nella sua delicata ossatura di ferro e viene attratto dalla Mole Antonelliana («la costruzione più geniale che sia stata mai costruita») come da un’enigmatica calamita. Con i suoi 165 metri di pietra, gli appare il «risultato di un impulso assoluto verso l’alto» e la ribattezza «Ecce homo». È l’impressione «sovrumana» del sublime, che gli si era già rivelata a Firenze davanti al «grande stile» di palazzo Pitti e alla «lungimirante bellezza» di Genova, la cui visione dall’alto lo convince del suo essere materializzazione vivente di un’«insaziabile ricerca del piacere del possesso». I grandi palazzi genovesi come gli imperiosi ritratti dipinti per i Doria da van Dyck o i giardini, rivelano il desiderio di imbrigliare la natura, di asservirla alla volontà di un «gusto», di un temperamento forte. Sono gli autocrati signori del commercio i veri autori, non gli artisti e gli architetti che si piegano ai loro desideri come anonimi servitori. Palazzo Pitti, la Mole di Torino, palazzo Doria sono vittoria del «bello» sul «colossale», anzi «eloquenza della potenza» come arte.”

 

Max Horkheimer, in Crepuscolo. Appunti presi in Germania 1926-1931.

“Vista in sezione, la struttura sociale del presente dovrebbe configurarsi all’incirca così: su in alto i grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di potere capitalistici che però sono in lotta tra di loro; sotto di essi i magnati minori, i grandi proprietari terrieri e tutto lo staff dei collaboratori importanti; sotto di essi – suddivise in singoli strati – le masse dei liberi professionisti e degli impiegati di grado inferiore, della manovalanza politica, dei militari e dei professori, degli ingegneri e dei capufficio fino alle dattilografe; ancora più giù i residui delle piccole esistenze autonome, gli artigiani, i bottegai, i contadini e tutti quanti, poi il proletariato, dagli strati operai qualificati meglio retribuiti, passando attraverso i manovali fino ad arrivare ai disoccupati cronici, ai poveri, ai vecchi e ai malati. Solo sotto tutto questo comincia quello che è il vero e proprio fondamento della miseria, sul quale si innalza questa costruzione, giacché finora abbiamo parlato solo dei paesi capitalistici sviluppati, e tutta la loro vita è sorretta dall’orribile apparato di sfruttamento che funziona nei territori semi-coloniali e coloniali, ossia in quella che è di gran lunga la parte più grande del mondo. Larghi territori dei Balcani sono una camera di tortura, in India, in Cina, in Africa la miseria di massa supera ogni immaginazione. Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali. Questo edificio, la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale, dalle finestre dei piani superiori assicura effettivamente una bella vista sul cielo stellato.”

 

Martina Borghi
Il grattacielo come opera aperta
in merito a Alessandro Bosco
Milano, il grattacielo e la metropoli. Riletture moderniste dello spazio urbano tra architettura, cinema e letteratura (1956-1963)

“E se l’opera aperta di Eco può definirsi come una struttura di relazioni e il modo in cui queste relazioni si stabiliscono è il vero soggetto dell’opera, allora davvero il grattacielo – come emerge dalle analisi puntuali di Bosco – è un’opera aperta. Come potremmo altrimenti definire la decisione di Ponti di lasciare visibili al fruitore, come se fossero opere d’arte, i vari ingranaggi e impianti tecnici che garantivano il completo funzionamento della struttura? Come per certa arte programmata esposta negli stessi anni, quello che contava per Ponti era l’attenzione al processo, a come funzionava la struttura grattacielo: un’esaltazione dell’estetica della tecnica, della bellezza dell’elemento industriale. Dalle riflessioni di Bosco e dall’analisi dei testi che propone emerge quindi chiaramente nella mente del lettore l’idea del grattacielo non come un semplice edificio, ma come una metafora epistemologica del periodo storico in cui si sviluppa.

Bosco conclude il suo libro con un’analisi della filmografia di quegli anni di Michelangelo Antonioni, nella quale spesso presente è l’icona del grattacielo. L’edificio di Ponti viene utilizzato dal regista per considerazioni di ordine sociale legate ai rapporti umani all’interno del complesso tessuto urbano moderno. L’architettura astratta, semplice, lineare, sfuggente, razionale e sottile del grattacielo Pirelli è la metafora dell’approccio alla vita dell’uomo moderno della metropoli, che si adatta a un’esistenza superficiale caratterizzata da rapporti fugaci e dall’alienazione dovuta all’onnipresenza oppressiva dei mass media. Nella concreta struttura delle riprese e del montaggio dei suoi film, i personaggi di Antonioni acquistano valore solo nelle loro relazioni con l’ambiente circostante: per esempio appunto col grattacielo e la sua sfuggente fisicità di vetri e riflessi, nella loro temporalità distorta e nel binomio tra modernità e passato. Il modo di comunicare scelto da Antonioni per presentare al pubblico le sue opere cinematografiche, la loro strutturazione formale, appare nuovamente come il vero soggetto e il principale significato di questi film. Nella poetica di Antonioni manca una prospettiva incentrata sul soggetto, per estrinsecare una serie di relazioni frammentate che mettono in luce la crisi del modello umanistico. Il grattacielo è nuovamente parte integrante di queste complesse relazioni, è emblema dei modi in cui l’esistenza umana si colloca nelle complesse dinamiche della metropoli moderna.

La verticalità del grattacielo rappresenta forse il simbolo di un allontanamento dal passato e la traccia di una nuova modernità: esso raffigura il progresso che avanza e l’inevitabile rovesciamento di equilibri sociali e urbani. Lo scritto di Bosco, tuttavia, ci dimostra lo sforzo di intellettuali e artisti dell’epoca per instaurare con esso un dialogo, avvalorando l’idea che non esiste una sola chiave di lettura per interpretarlo. I punti di vista molteplici e complessi rispecchiano il fervore di un periodo storico in cui si assiste a uno stravolgimento dei canoni estetici e a un cambiamento radicale nel rapporto tra l’uomo e l’idea di modernità.”

 

Serena Maffioletti
Il filo di spago del grattacielo italiano
Gli idearii di Gio Ponti

“Lontana da tutto ciò per ragioni politico-culturali, l’Italia riflette su questo tipo edilizio in ritardo di decenni, come si vede nei rari studi e in ancor minori realizzazioni: certamente i primi e più eclatanti progetti sono la Torre dei ristoranti di Mario Ridolfi (1928) e la proposta per il litorale di Castelfusano di Adalberto Libera (1933). Ma è solo negli anni Cinquanta che l’Italia inizia a studiare il dibattito sul grattacielo teso tra le sponde atlantiche, elevando infine questo tipo edilizio, ormai ‘adulto’ di settant’anni di storia, a simbolo della sua emersione dalla guerra, nonché dall’International Style. E comunque, se negli anni Sessanta-Settanta un fecondo incontro tra politica e ricerca universitaria, da Roma a Milano, da Torino e Venezia intravede nel grattacielo l’elemento idoneo per accogliere le emergenti funzioni terziarie, coagulandole in elementi puntiformi elevati nei rinnovati centri antichi o nelle emergenti enclaves direzionali, tutto o quasi resterà sulla carta.”

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Pier Paolo Zampieri.
Il Ragno e il grattacielo.
Lo spettacolo e la catastrofe

“Con questa immagine, l’Uomo Ragno si presenta al mondo il 15 Agosto del 1962. Una maschera e un grattacielo. Nonostante sia difficile da per cepire per l’occhio ad alta alfabetizzazione grafica dell’uomo del duemila, Jack Kirby riuscì nel miracolo di imprimere realismo, potenza cinetica e a mantenere, e forse amplificare, quel “senso del fantastico” che è sempre stato il vero minimo comune multiplo verso cui sottende tutta la produzione supereroistica e probabilmente ogni novità tecnologica, ogni spot, ogni nuova merce. Come si può vedere, nonostante un salto evolutivo nel realismo dei disegni, fuso in un’ambiziosa inquadratura “mozzafiato” che produce un sinestetico senso di vertigine nel lettore, gli elementi strutturali che compongono l’insieme sono più o meno gli stessi. Una maschera e un grattacielo. Sembra che il mezzo secolo di differenza tra le due immagini sia “passato” quasi esclusivamente nella potenza spettacolare del disegno e nel materiale del grattacielo. Non certo nell’Uomo Ragno che, a distanza di cinquant’anni, si ripresenta nello stesso luogo presumibilmente con la stessa età. Se consideriamo le centinaia di avventure vissute tra le due copertine, ci troviamo davanti ad uno strano paradosso la cui analisi chiama in causa il medium stesso, portato dalla sua medesima natura seriale a costruire narrazioni inserite in un congelamento temporale compensato da immagini sempre più dinamiche che corteggiano inevitabilmente la verti- gine e la catastrofe (metropolitana). È questo uno dei motivi che ha fatto sì che l’Uomo Ragno sia stato (probabilmente) la prima elaborazione narrativa a confrontarsi con la tragedia dell’undici settembre (Straczynski J. M. Romita J. JR., [Dicembre] 2001). Il fumetto supereroistico nasce, infatti, incorporato in un orizzonte di riproducibilità tecnica (Benjamin, 1936) sottomesso però alla feroce dittatura di una produzione seriale che deve sfornare ogni mese, ogni anno, ogni volta, una storia “nuova”. Alla classica serialità fordista, di tipo prevalentemente “orizzontale”, se ne aggiunge una, diciamo, verticale, tipica nelle produzioni culturali popolari13. Ogni storia mensile è obbligata ad essere eccezionalmente nuova per mantenere intatto quel “senso del fantastico”, ma deve anche attraversare il paradosso di riconsegnare al lettore il supereroe uguale a come lo ha lasciato. Tecnicamente il supereroe seriale non può essere “consumato” (troppo) dalla drammaturgia. Il suo patrimonio identitario e il conflitto drammaturgico su cui il personaggio è edificato non può mai risolversi veramente.

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Giangiuseppe Pili
Il castello – Franz Kafka, 2013

“Il mondo de Il castello è diviso in due parti di cui una è totalmente opaca: da un lato abbiamo il castello, dall’altro abbiamo il villaggio. Il castello è posto più in alto rispetto al villaggio, ed è sostanzialmente irraggiungibile dal villaggio stesso, nonostante non ciò non sia negato da alcuna legge fisica. Ed è questo un aspetto illuminante da comprendere: non c’è nulla che vieti di raggiungere il castello, nessuna legge scritta, nessun cartello ma di fatto non si può raggiungere per quanti sforzi si possa tentare. C’è dunque un’altra scissione tra il mondo del castello e quello del villaggio: il mondo del castello è regolato da delle leggi che non esauriscono il suo reale comportamento, esso non si riduce alla sua sola burocrazia (ad esempio) ma si fonda in gran parte su di essa cosicché se la sola burocrazia non basta a raggiungere il castello, così non è possibile farne a meno. Ma nemmeno il contrario è possibile, laddove il castello non sarebbe raggiungibile neanche per vie traverse perché sono di per sé illegali. E allora la legalità stessa del castello diventa incomprensibile perché non è né puramente formale (codice legale reale) né puramente informale (regole valide ma non legali). Così che ogni tentativo sarà sempre valutabile in modo negativo perché può difettare dal punto di vista formale o sostanziale o da entrambi. E così il castello ha delle regole sue proprie, non del tutto perscrutabili ma probabilmente sensate. Di sicuro sono molto severe e vincolano sia i membri del villaggio sia quelli del castello ma in modo diverso. Nessuno si chiede dove poter trarre ragione del diritto, dove poterlo leggere per esteso. Del castello si può dire solo che esiste perché si vede, e alcuni peculiari effetti delle decisioni di quelli ivi vi lavorano. Ma la stessa possibilità di contatto tra i popolani del villaggio e gli uomini del castello è di fatto negata. Alcune volte, comunque, capita che alcuni popolani particolarmente fortunati vengano contattati dai personaggi del castello. In genere perché i membri del castello vogliono alcuni peculiari servizi che possono direttamente consumare al villaggio: pernottamenti, trasporti, prestazioni sessuali… Non è chiaro né quale sia il limite dell’influenza del castello né quali siano i suoi doveri rispetto ai cittadini. Solo è chiaro che i cittadini devono la loro stessa esistenza al villaggio ai membri del castello, così che questi possano disporre come meglio credano della massa dei popolani.

Il villaggio è costituito dalla massa dei popolani che soggiacciono alle leggi del castello. La popolazione viene descritta sommariamente come ostile nei confronti di K., paurosa e aggressiva, ma non per questo capace di rivoltarsi contro un nemico quale che sia. Il villaggio è la propaggine orizzontale dell’alto castello, all’interno del quale si vive del castello e per il castello. L’ostilità intrinseca del popolo si rivolge sostanzialmente verso sé medesimo, laddove c’è troppo rispetto e troppa paura per insorgere contro il castello. Ma è soprattutto la responsabilità dispersa dei membri del castello a rendere impossibile ogni ulteriore focalizzazione: ogni servizio del castello è gestito da un sistema i cui individui sono solo degli esecutori di un ordine prestabilito e superiore al cui senso non hanno alcun accesso. I membri del castello sanno solo che c’è un ordine, che è vincolato da alcune regole molto precise, ma non sanno indicare quale sia la sostanza, il perché di tale ordine regolare. Ciò che sanno è che devono applicare il regolamento, così come i popolani sanno che lo devono rispettare. Per questo K. si trova in una strana posizione: non fa parte del popolo, quindi avrebbe diritto ad alcuni compiti relativi alla gestione di una parte (insignificante) del castello e quindi è un estraneo rispetto al popolo; ma non fa parte neppure del castello, perché non ha alcun ruolo definito e riconosciuto dalle regole del castello, per tanto è estraneo anche rispetto ai membri del castello. Perciò K. è un estraneo che getta un’ombra sulle già misere esistenze dei popolani. Essi hanno paura di K., ma non possono ignorarlo. Essi sanno che è uno straniero e per questo non possono integrarlo, per quanto non possono respingerlo del tutto per le sue eccentricità: proprio perché è uno straniero e non è ancora amalgamato all’interno del sistema non possono rimproverargli più di tanto.

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Performance.

 

Beneath you.
Selection of images from video.
Performance, 2021.

 

Posto riservato (7 ottobre 2019)
Rovi, sedia “Thonet” (1920).
Serie: azioni impossibili.
Installazione, 2019.

 

Due progetti in corso.
Alibi e ragioni, a seguire.

Performare in spazi esterni, secondo progetto.

Lo spazio esterno, urbano, stradale, se interatto (interagito performativamente) genera sottili crinali tra pubblico e privato, tra uso e abuso, che si prestano ad essere percorsi artisticamente, in equilibrio; lontano dal quel legittimo sospetto che lo spazio interno, della sala prove, del laboratorio, offra invece una rete di protezione, un alibi all’errore, alla disattenzione.

 

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7 risposte a “Il corpo elevato.”

  1. […] “Per i corpi, il loro stare e abitare lo spazio, nel corso dei secoli si è passate – progressivamente e a diverse velocità – da un modello orizzontale e circolare (il focolare, la jurta) ad un modello verticale (i palazzi, i grattacieli). Di pari passo si sono evolute le strutture culturali gerarchiche e le capacità tecniche, come mano armata della razionalità economica (massimo risultato con minimo sforzo, ottimizzazione delle risorse scarse) e inconscio tecnologico incorporato (lo strumento che non solo consente un certo ammontare di usi predeterminati, ma già contiene al suo interno il risultato che vuole ottenere).” Prosegui qui la lettura. […]

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  2. […] Il corpo elevato. “L’architettura ha avuto ed ha un impatto culturale e sociale, ma anche un’influenza sul biologico e sul percettivo dei corpi rispetto a se stessi, agli altri corpi e allo spazio, nella concezione di sé e della realtà. Per i corpi, il loro stare e abitare lo spazio, nel corso dei secoli si è passate – …” […]

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  3. […] corpo senza organi. 1996 d.C – Il corpo scalare. 1999 d.C. – Il corpo nascosto. 2001 d.C. – Il corpo elevato. 2003 d.C. – Il corpo nella caverna. 2003 d.C. – Il corpo profanato. 2005 d.C. – Il corpo […]

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  4. […] corpo senza organi. 1996 d.C – Il corpo scalare. 1999 d.C. – Il corpo nascosto. 2001 d.C. – Il corpo elevato. 2003 d.C. – Il corpo nella caverna. 2003 d.C. – Il corpo profanato. 2005 d.C. – Il corpo […]

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  5. […] corpo senza organi. 1996 d.C – Il corpo scalare. 1999 d.C. – Il corpo nascosto. 2001 d.C. – Il corpo elevato. 2003 d.C. – Il corpo nella caverna. 2003 d.C. – Il corpo profanato. 2005 d.C. – Il corpo […]

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  6. […] corpo senza organi. 1996 d.C – Il corpo scalare. 1999 d.C. – Il corpo nascosto. 2001 d.C. – Il corpo elevato. 2003 d.C. – Il corpo nella caverna. 2003 d.C. – Il corpo profanato. 2005 d.C. – Il corpo […]

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