Il corpo stanco.
Ovvero perché la chiamiamo stanchezza.
E se non sia il caso di chiamarla altromodo.
La stanchezza, quando è nata. Perché presumo sia nata, nel suo concetto, intendo: il primo essere umano che ha provato la stanchezza. Oppure, meglio: quando è stata inventata, la stanchezza; non scoperta, prima non c’era, era un’altra cosa, non si chiamava così, e poi – per qualche ragione che è la questione – ecco, da quel momento, quale? tutte le persone che si sono sentite in quel modo, in qual modo, hanno iniziato a dire: questa cosa che proviamo si chiama, la chiamiamo, stanchezza. Perché è ovvio che prima dell’essere umano – contesto sociale, culturale – la stanchezza non c’era; non se ne trova traccia negli animali che, quando devono, dormono ma certo non usano il concetto di stanchezza, semplicemente si addormentano, né provano la scia – come una cometa, la stanchezza? non quella di Halley, che passerà di nuovo nel 2061, bensì cometa che (ci) solca tutte le sere – la scia di cose che la stanchezza si porta dietro, quando si affaccia nel nostro cielo. Arriva, la stanchezza? Da fuori, da dentro? Pianta spontanea, oppure la coltiviamo, inconsapevoli?

E’ stato in epoca primitiva, che è accaduto? Cacciatori nomadi stanchi, seguire le tracce, in seguire la preda, correre dietro a, ecco la posizione eretta aiuta parecchio; però poi la stanchezza, d’altronde di notte è meno facile cacciare, la ricerca di un riparo per dormire, da lì è un passo: gli accampamenti stabili, una stagione, poi un’altra, poi un’altra ancora, poi torna quella di prima, uh guarda! da questo seme lasciato lì è nata una pianta! l’agricoltura. Niente di male, fin qui, nella stanchezza, no? Anzi. Stai un po’ fermo che scopri cose che da nomade sempre in caccia ti sfuggirebbero.
Ed è altrettanto evidente che in quella coda di cometa di cose che la stanchezza si trascina dietro (ma non è vero: la coda è lo strascico luminoso in direzione opposta al sole, è il sole che fa bruciare la cometa; le metafore, aperte, contengono altre metafore, matrioska dentro matrioska) si possono trovare, telescopicamente osservando, tra le altre: insoddisfazione, senso di colpa, frustrazione, tristezza. E raramente la stanchezza – ai nostri giorni, un indizio? – è accolta (allora viene da fuori) non dico con benevolenza, gioia, ma almeno con serenità, accettazione (un altro indizio). Perché temiamo la stanchezza? Perché non le siamo amiche amici? Allora ecco – come la lettera rubata di Edgar Alla Poe, che nessuno nota proprio perché in bella vista – la stanchezza così diffusa, così comune, nessuna persona ne è immune, tutte tutti la conosciamo, dietro alla sua facciata prepotentemente chiara – i sintomi della stanchezza, la stanchezza patologica, cronica – si celi ben altro, laggiù, sotto strati di coralli cresciuti nei secoli, in profondità: a metà tra l’inorganico e l’organico, roccia e animale. Decostruire la stanchezza. Decolonizzarla, forse, da chi si è appropriato di questo stato dell’essere e l’ha reso ai nostri occhi, per i nostri palati: negativo, disdicevole, sbagliato. Chi strumentalizza la stanchezza e a che fine, questo è il punto.

Perché si cede, alla stanchezza, no? Si perde una battaglia. Si dorme, ci si riprende, la si riprende, la battaglia, quotidiana. Una delle tante ma di quale guerra? La stanchezza è una sconfitta, implicitamente. Sconfitta confitta nella nostra natura. L’imperatrice di tutte le stanchezze? La morte. Poi viene uno e dopo tre giorni risorge. Campione olimpionico di lotta alla stanchezza. Ma noi comuni mortali: che cosa si poteva vincere e non si è vinto? Una possibile strada da percorrere è l’etimologia. Stanchezza, quindi stanco, dicono voce panromanza di etimo incerto, probabilmente da stagno, il lago di acqua ferma, dal latino stagnum; secondo altre fonti dal proto-indoeuropeo tenhg, acqua bassa e ferma (ecco il greco antico teganos, laguna), oppure radice sanscrita *sta- che indica lo star fermi. Diverse radici ma a risalirle, insomma, siamo lì: l’acqua stagnante, lo star ferme, persone che invece di fare non fanno, non si muovono. Stanno, stagnano. Lagnano, lacunano. Mancanza. Di che cosa? Anche i sinonimi sono interessanti: sfiancamento, sfinimento, spossamento, spossatezza, stress. Una smitragliata di s-, che aggiunge significato privativo o intensivo.

Quindi, date queste radici che procediamo ad estrarre anche se non quadre e non quadrano, la stanchezza in epoca greca antica? Endimione. Il mito (ogni mito) è sfocato sfuggente: secondo alcune fonti passa le notti ad ammirare la luna di cui è innamorato – il primo astronomo della storia – secondo altre è Selene ad innamorarsi di lui, fatto sta che Selene prega Zeus di mantenerlo per sempre in quel momento di bellissima giovinezza, ed ecco che Endimione dorme per sempre, e per sempre resta giovane. Secondo altre fonti ancora, è Hypnos ad innamorarsi di Endimione, e gli dona la capacità di dormire ad occhi aperti, dormire da sveglio. Sognare ad occhi aperti. In tutti questi miti la stanchezza non sembra un problema, anzi, al contrario: si resta giovani, si sogna ad occhi aperti. Non è questa la strada giusta.

E mi insospettisce, tutta questa storia: che in un metaforico – e già di per sé opinabile – dualismo / manicheismo il contrario di agire sia pefforza (cit. Dario Moccia) negativo; da quando lo stare è stagnare, la posatezza è spossatezza, il finimento è sfinimento? Chi ha deciso che è bello fare ed è brutto stanchezzare? Ah, la stanchezza, una delle colonne portanti del capitalismo: sei produttivo, eccoti un premio produttività; stanchezza? uhm, non va bene ma ok, riposati che così domani torni al lavoro in forma. Ma la cosa è più complessa di così: laddove il dolce far niente si manifesta nella perdita sperdita di tempo online, ecco: il capitalismo vettoriale, che fa dei flussi di informazione e masticazione dei bigdata soldoni a palate; tu naviga pure e perdi tempo, che intanto ti profilo e vendo il tuo sguardo, accorpato a quello di altre persone simili a te, a chi vuole esser visto; sei single? banner di un sito per incontri. Hai una figlia un figlio? pubblicità e link a passeggini e carrozzine. Anche la stanchezza, che si manifesta nel pollice che scorre tra post e foto sui social, è stata ed è territorio di conquista monetizzazione da parte di [inserisci qui a piacimento nome di multinazionale piattaforma social]. Ma questa strada, per quanto molto interessante, ci porta lontano dal cuore della questione, ovvero l’origine della stanchezza.

Non si stanca, il criceto, di correre sulla sua ruotina? Ma prima ancora: la tortura della ruota in epoca medievale. E prima prima ancora (se è vero quel che si dice) la ruota nelle carte dei Tarocchi. Girare sul posto, muoversi senza andare da nessuna parte. Il meccanismo infernale della megamacchina, cfr Bataille, Latouche. Non se ne esce mai. “Nemmeno di ritorno dalla fabbrica, a casa, anzi ancora di più a casa, in famiglia, si avverte la megamacchina” questo è Carmelo Bene. La megamacchina megafabbrica espansa gassosa ovunque, che respiriamo continuamente. Il capitalismo che produce certo, molto di più di quel che pensiamo. Prodotti, ovvio. Inquinamento, meno ovvio ma finalmente se ne parla e sempre più spesso. E stanchezza, questo è meno intuitivo. Il capitalismo riversa stanchezza nelle acque di scarico, che arrivano al mare, il particolato si deposita, ecco i coralli di cui scrivevo prima.

Quindi, se non è accaduto in era primitiva, se non è accaduto durante l’antica Grecia, sarà stato il Medioevo. La stanchezza in epoca medievale: accidia, accidia! peccato! inferno! bruciare per sempre! D’altronde a pontificare sugli stati del corpo e della mente c’erano i teologi e qualche medico-filosofo che, se non si allineava con santa romana chiesa, se la passava male, e quindi non poteva che andare così. Anche di questo, qualcosa o molto, è rimasto nel substrato, e avvelena le falde acquifere del contemporaneo che beviamo tutti i giorni. Sii produttivo. Sei qui per fare qualcosa, addirittura: di grande, di importante. Dai un senso alla tua vita. Ecco il peccato originale: sei al centro del cosmo e sei qui per un motivo. Inconcepibile che sia stato un caso, e che non serva a nulla.

Insomma, non si sa bene quando – un po’ di sospetti su chi sia stato li possiamo legittimamente avere – ad un certo punto una cosa naturale come la stanchezza, che ancora non si chiamava stanchezza, ha iniziato a chiamarsi stanchezza; e si raccontava e si racconta essere cosa triste, negativa, riprovevole; ci si abbandona ad essa con un senso di incompletezza inconcludenza, (fomo: fear of missing out, per stanchezza mi perdo qualcosa che invece altre altri fanno), ci si arrende a lei dopo lungo assedio, le ore rubate al sonno, poi: non posso proprio fare a meno di riposare, dormire, basta così. La tirannide del fare. E se questo sistema capitalista mi vuole assegnare un bel premio se sono produttivo, allora io per dispetto: mi voglio assegnare un premio altrettanto bello se sono stanco. E stanco non perché ho prodotto, stanco perché stanco e basta (meglio ancora se stanco perché ho fatto cose belle, ma anche qui, uhm); stanco perché sono organico, non così diversamente stanco da quell’orso che va in letargo, stanco come quando
“Dormono le cime dei monti e le gole,
i picchi e i dirupi,
e le famiglie di animali, quanti nutre la nera terra,
e le fiere abitatrici dei monti e la stirpe delle api
e i mostri negli abissi del mare purpureo;
dormono le schiere degli uccelli dalle larghe ali.”
– Alcmane, seconda metà del VII secolo a.C.
Decostruiamo la parola. Stanchezza. Via la s- privativa o intensiva, tanchezza. Via la “-ezza” questa suffissazione spregiativa, chiamiamola tanch-etza. Tanch suona molto come l’inglese “thank”, quindi thank-et-za. Traducendo: “grazie e za”. Che cosa è questa za, di cui essere grate? Questo resta da scoprire, che cosa porta la stanchezza una volta che la concepiamo come thank-et-za. Dalla somatica della stanchezza, cerchiamo una possibile conversione, trasformazione, trasmutazione alchemica, in positivo.
La stanchezza può essere mentale? Allora la thank-et-za è silenzio, pace della mente che come un motore troppo su di giri grippa fa fumo e si ferma; le cose si riordinano in ordine di importanza disimportanza. La stanchezza può essere fisica, ovvero: incapacità di svolgere compiti come sollevare pesi? La thank-et-za è consapevolezza delle leggi fisiche di questa parte di universo, della gravità soprattutto, che non esiste, cioè: è la massa che distorce lo spazio e dà origine al tempo. Quindi, tempo: la thank-et-za è tempo che procede (pro cede!) in modo diverso. Da frenetico (phrenós, c’è di mezzo la mente, ma phrena, phrena, vai troppo veloce) a fermetico, fermo, etico, mimetico. La stanchezza è impossibilità a svolgere azioni di precisione, in filare un filo nella cruna di un ago, mancanza di controllo al dettaglio nel dettaglio degli arti, delle articolazioni, degli articoli? Allora la thank-et-za sarà: via l’occhio dal microscopio, guardar largo, orizzonte orizzontale sul letto a riposare, chiudere gli occhi, finalmente vedere.
Ecco che cosa potrebbe essere la za della parola thank-et-za che è cosa di cui ringraziare e graziarsi: mostra il limite al parossismo dei pensieri produttivi e quindi duttivi (sei incastrata incastrato lì, in quel, con dotto), e quindi l’organicità del nostro pensiero; che si vorrebbe (che qualcuno per noi vorrebbe) essere sempre oltre, sempre meglio, sempre più, e invece è molliccio budino di cui prendersi cura, contenuto in questa scatola cranica; za è silenzio, relattivismo che rimescola l’importanza delle cose; za è tempo di verso da quello sempretroppoveloce, za è sguardo senza oggetto da brutalizzarsi a primi o secondi fini; è sguardo che sguarda, che spazia, crea spazio.
Gemella della stanchezza, tenuta nascosta dalla nascita in cantina, da genitori padri padroni, eccola qui, liberata: la thank-et-za.
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