Il corpo automatico.

Il corpo automatico.

 

Secondo Katia Pizzi (“Pinocchio e il corpo meccanico: trasposizioni visive tra J.J.Grandville e Jarry”) Pinocchio è la creatura moderna per eccellenza. Il diciannovesimo secolo ha prodotto il mostro – assemblato e meccanico – del dottor Frankenstein (Mary Shelley, 1818) e Olympia, la bambola automatica dell’Uomo della Sabbia (E.T.A.Hoffmann, 1816), la locomotiva e le macchine tessili della prima rivoluzione industriale; numerosi poeti, scrittori e intellettuali (tra i quali Carducci, D’Annunzio, Marinetti e lo stesso Collodi), ad un tempo con nostalgie pastorali ma assediati da una modernità esuberante e perturbante, sono circospetti sostenitori del progresso tecnologico e meccanico, spesso osservato attraverso le lenti della nostalgia del neoclassico.

 


Pinocchio di Luigi Comencini, 1972.


Pinocchio di Walt Disney, 1940.


Pinocchio di Guillermo Del Toro, 2022.

 

Resta irrisolta la questione del lavoro nell’economia capitalista e la meccanizzazione del corpo operaio: da un lato l’entusiasmo per la macchina simbiotica, dall’altro la preoccupazione per gli effetti della ripetizione automatica dei gesti sul corpo umano (cfr la megamacchina di Serge Latouche) Pinocchio si colloca al termine di una complessa genealogia di automi, robot, creature meccaniche che incarnano, oppure demonizzano, gli albori della prima civiltà industriale. Enrico Mazzanti, primo illustratore delle avventure di Pinocchio – conoscitore delle caricature antropomorfe di Jean Ignace Isidore Gerard Grandville – traspone efficacemente nei suoi lavori l’aspetto fiabesco ma allo stesso tempo inquietante del burattino animato: una natura vegetale e naturale, ma allo stesso tempo ibrida con il meccanico.

 

 

La marionetta di Père Ubu (Alfred Jarry 1873 – 1907) spinge ancora più in là il macabro e il grottesco, sconfinando nel simbolista, nel dadaista e nel surrealista: la sua anatomia enfatizza la testa, il ventre e il naso, come nel Pinocchio: non becco, bensì mandibola superiore di coccodrillo, fossile, organo vestigiale dell’antenato dell’essere umano, il rettile. Ed è effettivamente l’incarnazione di una tirannia feroce e assolutista (da dinosauro, qui le etimologie ci fanno gioco, ecco il deinòs), quella di Père Ubu: messo in scena nel 1888, Ubu mostra continuità on Pinocchio nel suo essere marionetta meccanica, ma senza l’edulcorante della favola, di natura ibrida, senziente, inanimata e al contempo senza empatia né pietà, come la megamacchina fredda della catena di montaggio moderna. Il tirannosauro ritornato che ingoia operaie ed operai nelle sue viscere.

 


“Metropolis” di Fritz Lang, 1927. La versione distopica di “L’uscita dalle officine Lumière” dei fratelli Auguste e Louis Lumière, 1895. L’essere umano burattino meccanico che deve svolgere il compito della catena di montaggio.

 

 

 

Come suggerisce Massimo Riva, Pinocchio è un ambivalente neurospaston (dal greco antico: νευρόσπαστον): manufatto di pezzi meccanici ed essere virtuale, sovrannaturale, prototipo di una nuova generazione di simbionti, le cui membra si muovono senza fili – fuori controllo dunque – dotata di protesi tecnologiche ovvero ibridata con la tecnologia. Ai confini tra il naturale e l’artificiale, l’animato e l’inanimato, il sovrannaturale e la AI (artificial intelligence), come il protagonista dell’omonimo film di Steven Spielberg. E, da non dimenticare, desiderosa di diventare umana, di trasformarsi in carne, di diventare vera, ma impossibilitata a farlo a causa delle sue bugie – cioè del suo simulare, e non essere.


Marionetta di creta “neurospaston“, con articolazioni per essere animata, Atene, 350 a.C.

 

In una sorta di anticipazione del post-human e post-organic contemporaneo, Pinocchio (e le sue derivazioni successive) diventa figura liminale, dove confliggono le modalità artistiche estetiche e scientifiche del pensiero occidentale, delle sue contraddizioni e del suo inconscio tecnologico incorporato nella forma. Pinocchio fantastica la trascendenza di sé, la redenzione, il ritorno alla carne; nel diventare il proprio burattinaio di sé, riconosciuto non riconosciuto tra altri burattini di carne: gli esseri umani.

 


Pinocchio di Carmelo Bene, 1998.

 

Scrive Donatella Orecchia, in “Pinocchio e la straordinaria avventura dell’infortunio sintattico: Carmelo Bene da Collodi”:

“Pinocchio (da pinolo, cibo della cucina povera) nasce all’insegna della fame (come le più antiche maschere popolari, di cui Bene afferma essere il burattino di Collodi l’unico vero erede) e della contraddizione, «diviso senza possibilità di soluzione tra l’universo del piacere e il mondo degli adulti, tra l’attrattiva dell’infanzia e il principio della realtà» (Garboli, 1969, p. 277). Legno non di lusso, buono piuttosto per far riscaldare le stanze d’inverno, legno da ardere cioè, eppure vivo, anzi dotato di un’incoercibile vitalità che, una volta fatto burattino, manterrà la propria inclinazione originaria alla continua trasformazione: il corpo di Pinocchio è un precipitato di alterità disumana, testimoniata dalla disarticolazione delle membra che si scoprono discontinue (Geppetto costruisce i piedi del suo burattino con un altro tipo di legno); soggetto a travestimenti e metamorfosi (anche animali) continue, sempre reversibili finché resta burattino, riconosciuto da Pulcinella come uno di famiglia, scaltrito nell’arte della menzogna, Pinocchio è infine attore.”

“Domina il legno, quello duro con cui è costruito Pinocchio, quello del suo mondo. Domina il buio, quello «di una veglia funebre»: del teatro, dell’attore, del burattino condannato a crescere e diventare uomo. Domina lo spazio dell’immaginario infantile, del peluche, dice Bene. Perché la parabola di Pinocchio nel 1981 «è la parabola di chi viene sbozzato, nasce perché in realtà è sognato, immaginato proprio da questa Divina Provvidenza-Bambina, che non è nient’altro che una bambina in una camera dei giochi» (Tessari, in Orecchia, 2007, p. 53), la quale, circondata da enormi animali di cui si diverte a svitare e riavvitare le teste, conduce un gioco svagato e diabolico con «innocente criminalità» (Garrone, 1999).”

“Quando Pinocchio si toglie il naso, al Teatro Laboratorio, nel 1962, le bandiere tricolori vengono fatte srotolare da ogni attore per tutto il locale, mentre la musica dei Pagliacci di Leoncavallo rompe i timpani; a Spoleto, vietate le bandiere, tre proiettori ad alto voltaggio gettano luci verdi rosse e bianche contro il pubblico; più tardi, nella ripresa del 1966 al Beat 72, dall’alto «le bandiere tricolori calano mentre irrompe un fragoroso Can-Can», in un clima di «esasperazione grottesca» (Vice, 1966). È la fine della possibilità di mentire subissata dal falso nazionalismo di un’Italietta che fatica ad avere un’identità. […] Quel naso finto, al quale Pinocchio rinuncia, segna la fine della grande finzione dell’arte nel mondo contemporaneo; la tragica parabola della decadenza della menzogna (Wilde) nella modernità, quella menzogna che non si occulta ma che mostra il naso.”

 

Secondo Masahiro Mori (Pia Colucci, “Umano, non troppo umano: l’Uncanny Valley”, HZ 2021) la vista di un robottino antropomorfo (come Asimo, il robot di Honda) ci suscita curiosità e familiarità per via del suo aspetto che va ad imitare quello degli esseri umani, grazie alla sua forma vagamente minuta che ricorda un robot dei film d’animazione. L’apice di tale piacevolezza viene interrotta bruscamente dalla cosiddetta valle perturbante, un bias cognitivo che ci desta sensazioni spiacevoli di repulsione e disagio alla vista di cadaveri, zombie e androidi o umani riprodotti in CGI.

 

 

“Come si può osservare nel grafico presentato da Mori nel suo studio, la linea della valle perturbante tocca il fondo con l’immagine abominevole dei morti viventi per poi risalire dal basso fino a ristabilizzarsi alla vista di protesi che riproducono parti del corpo umano, al livello più alto ci sono le marionette giapponesi bunraku o le comuni bambole e, infine, estremo senso di familiarità che si prova alla vista di un essere umano.”

 


Sophia, della Hanson Robot.

 

“Prima del saggio di Masahiro Mori, il perturbante fu studiato dallo psichiatra tedesco Ernst Jentsch nel 1906. Nel suo saggio “Riguardo la psicologia del perturbante”, egli parte dalla parola tedesca “unheimlichen” che significa “non a casa”, “non comodo”, “estraneo”, in contrapposizione con il termine più accomodante heimlich, familiare. Secondo Jentsch il perturbante è una sensazione di incertezza nata da una diffidenza, da parte del cervello umano, di accogliere ciò che non risulta né familiare, né comprensibile. Questa condizione di ambiguità che sta in un oggetto inanimato che emula il movimento volontario di un essere vivente ci risulta difficile da accettare fino in fondo, regalandoci una sensazione di disagio e incertezza.”

 

 

“Stando alle parole di Jentsch, il perturbante spiega anche la repulsione che proviamo alla vista di un cadavere: ciò è dovuto dall’associazione dell’inanimato ad un corpo che fino a poco tempo prima era vivo e capace di compiere movimenti volontari. Su questa teoria tornò Karl MacDorman nel 2005 sostenendo che il perturbante nasce dall’innata paura della morte e dai pensieri legati alla sua ineluttabilità. Il “Terror Management Theory” introdotto da Pyszczynski, Greenberg e Solomon nasce proprio da una visione nichilista della vita che provoca ansia negli esseri umani che, per soffocare tale inquietudine, vanno alla ricerca di un senso della vita che si trasmuta in simbolismi, valori e religioni. Secondo MacDorman, l’uncanny valley è parte integrante del nostro istinto di autoconservazione, va contro la ricerca di senso che ci infonde sicurezza. Un robot umanoide minaccia tale sicurezza perché, seppur simile all’umano, è inanimato e quindi più vicino di quanto si crede al concetto di morte.”

 


“Io, robot” di Alex Proyas, 2004.


“Ex-machina” di Alex Garland, 2015.


“Terminator” di James Cameron, 1984.


“Virus”, di John Bruno, 1999. Gli esseri umani, contagiati da un virus alieno, nel ventre di una nave da trasporto si trasformano in creature post-human e post-organic, simbiosi tra carne e tecnologia. Sotto, i Borg di Star Trek.

 

 

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Altri percorsi

 

Andrea Pace Giannotta
Zombie filosofici, 2023.

“Lo zombie di Chalmers, invece, è uno zombie fenomenico: una creatura fisicamente identica, atomo per atomo, ad un essere umano, e quindi identica ad esso in quasi tutto. Il mio gemello zombie si comporta come me, parla e scrive come me, affermando ad esempio di provare gioia alla vista di un bel tramonto in riva al mare, di desiderare di bere un buon bicchiere di vino, di ritenere però che quelle nubi in lontananza fanno presagire l’arrivo di un temporale e che forse è meglio andar via, etc. Egli (o, meglio, esso) è indistinguibile da un essere umano dal punto di vista del comportamento osservabile: fa le stesse cose. C’è però una profonda differenza tra me e il mio gemello zombie: tutti gli “stati mentali” che egli riferisce di avere e che ne muovono il comportamento (credenze, ricordi, desideri, congetture, ragionamenti, etc.) non sono accompagnati da alcuna esperienza, ossia: non si prova nulla ad essere uno zombie, non fa alcun effetto.”

“lo zombie di cui parla Chalmers è identico fisicamente, atomo per atomo, ad un essere umano, ma è privo di coscienza fenomenica: non fa alcun effetto, per il mio gemello zombie, sentire, credere, desiderare, immaginare, etc. La differenza con lo zombie dei film è quindi netta: un film che avesse per protagonisti gli zombie fenomenici (poniamo, Quarto potere di Orson Welles) sarebbe identico ad un film con personaggi umani: la storia narrata sarebbe la stessa e i personaggi avrebbero lo stesso comportamento (ad esempio, Charles Foster Kane che in punto di morte lascia cadere una palla di vetro sussurrando “Rosebud”). A pensarci bene, però, lo scenario descritto da Chalmers è altrettanto inquietante di quello narrato nei film di Romero. L’idea dello zombie fenomenico, infatti, ci fa riflettere sul fatto che non abbiamo modo di sapere se l’entità che abbiamo di fronte sia davvero un essere cosciente o sia, piuttosto, uno zombie fenomenico. Si tratta del classico “problema della mente dell’altro”: che ne so io che la persona che ho di fronte – poniamo, un amico che mi viene incontro sorridente dicendo di essere contento di rivedermi, in un esempio di Ludwig Wittgenstein – stia davvero provando quello che dice e mostra di provare con il suo comportamento, anche non verbale? Si faccia attenzione, però, a non confondere questo scenario con quello, più o meno frequente, in cui l’altro prova sì qualcosa, ma non ciò che dice di provare e che dà a vedere, in tal modo ingannandomi. Il problema della mente dell’altro è più radicale: l’altro potrebbe non provare alcunché, perché potrebbe essere appunto uno zombie.”

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Emanuele Mandelli.
Cinema – Lo zombi filosofico.
Caffé Filosofico di Crema, 2011.

“Negli anni ‘60, George Romero prende di peso il tono apocalittico del romanzo di Richard Matheson Io sono leggenda, e mette in scena per sei volte, tra il 1968 ed il 2009, la fine dell’umanità a base di zombi senza coscienza. Il primo abbozzo di critica sociale di un mondo privato di pensiero critico si ritrova già nel capostipite del 1968 La notte dei morti viventi, ma è in Zombi del 1978 che Romero si fa profeta ed ipotizza una società dei consumi che riesce ad andare oltre la coscienza individuale instillando nella massa a-critica, una coscienza collettiva inestinguibile, anche da morti viventi. La gran parte della pellicola è infatti ambientata in un centro commerciale preso d’assalto dagli zombi.”

 


“La notte dei morti viventi”, George A. Romero, 1968.


Zombi (Dawn of the Dead), George A. Romero, 1978.

 

“La critica al sistema prosegue e si alza di tono con Il giorno degli zombi del 1985 in cui il mondo militarizzato è messo alla berlina dal dualismo scientifico tra il dottor Logan, che cerca di rieducare gli zombi, quantomeno ad una vita basata solo sui problemi facili ma dignitosa, e il capitano Rhodes che preferisce rieducare gli zombi ad esercito senza gerarchie interne, quindi invincibile. Romero ribalta addirittura la visuale in La terra dei morti viventi del 2005 dove gli umani sono i cattivi che cercano di mantenere schiavizzati gli zombie che stanno prendendo coscienza di avere una forza e soprattutto una dignità e rivendicano un posto dove vivere la loro vita, che non è più non vita ma una nuova condizione della coscienza. In questo film si arriva a tifare per gli zombi seguendone con affetto il processo di crescita.”

 


“L’alba dei morti viventi” di Zack Snyder, 2004.


“Benvenuti a Zombieland”di Ruben Fleischer, 2009.

 

“Il percorso critico di Romero si completa con Le cronache dei morti viventi del 2007 e Survival of the Dead del 2009, in cui viene preso di mira il mondo dell’informazione, nuovo punto cardine della nostra società. Un mondo che viene utilizzato come critica sociale mostrando come vengono poste le questioni cruciali della nostra vita, come spesso vengono depotenziate e nascoste dall’informazione, insomma una riflessione sociologica a base di carne e sangue. Una parabola sulla società dell’informazione sanguinolenta che mostra i mostri e nasconde le crisi, basta vedere i casi di cronaca Italiani, da Cogne ad Avetrana, con il pubblico massa zombizzata assetata di sangue.”

Prosegui qui la lettura.

 

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“Pablo Wendel was born in 1980 in Germany. He studied sculpture at the Academy of Fine Arts Stuttgart (1999-2002). He gained international recognition with the performance “Terracotta Warrior. Xi’An China” that he realized during his time as a student at the China Academy of Fine Arts, Hangzhou in 2006. For this performance Wendel disguised himself as a terracotta warrior of the famous Terracotta Army of the first Emperor of China Qin Shi Huangdi and lined up within the ranks of the warriors on site. When he was finally discovered he continued playing the role of the stiff terracotta figure. His recent performances focus on ecological questions, in particular on the aspect of sustainable energies.”

 

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Performance

 

Mittente e destinatario.
Corpo, sedia, busta, lettere.
Tentativi di controllare il punto di caduta.
Selezione di immagini da video.
Performance, 2022.

 

L’artista è un casalingo senza dimora.
(Spianare la strada)
Serie: azioni impossibili.
Performance, 2020.

 

A horse-headed walk.
(Passeggiata con testa di cavallo)
Stone sculpture.
Series: impossible actions.
Performance, 2020.

 

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9 risposte a “Il corpo automatico.”

  1. […] scala è collocato il senso della vista, ogni corpo artificiale è insostenibile allo sguardo (cfr. la uncanny valley) perché palesa (oscenamente, cioè ciò che prima era fuori scena) il divario tra apparenza ed […]

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  2. […] divorato. / 1982 d.C. – Il corpo cosa. / 1895 d.C. – Il corpo indotto. / 1900 d.C. – Il corpo automatico. / 1900 d.C. – Il corpo pathosformelico. / 1914 d.C. – Il corpo tagliato. / 1980 d.C. – Il […]

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  4. […] Il corpo automatico. “Secondo Katia Pizzi (“Pinocchio e il corpo meccanico: trasposizioni visive tra J.J.Grandville e Jarry”) Pinocchio è la creatura moderna per eccellenza. Il diciannovesimo secolo ha prodotto il mostro – assemblato e meccanico – del dottor Frankenstein (Mary Shelley, 1818) e Olympia, la bambola automatica dell’Uomo della Sabbia (E.T.A.Hoffmann, 1816), la locomotiva e le macchine tessili della prima rivoluzione industriale; numerosi poeti, scrittori e intellettuali (tra i quali Carducci, D’Annunzio, Marinetti e lo stesso Collodi), ad un tempo con nostalgie pastorali ma assediati da una modernità esuberante e perturbante, sono circospetti sostenitori del progresso tecnologico e meccanico, spesso osservato attraverso le lenti della nostalgia del neoclassico.” Prosegue qui. […]

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  5. […] Il corpo automatico. “Secondo Katia Pizzi (Pinocchio e il corpo meccanico: trasposizioni visive tra J.J.Grandville e Jarry) Pinocchio è la creatura moderna per eccellenza. Il diciannovesimo secolo ha prodotto il mostro – assemblato e meccanico – del dottor Frankenstein (Mary Shelley, 1818) e Olympia, la bambola automatica dell’Uomo della Sabbia (E.T.A.Hoffmann, 1816), la locomotiva… [prosegue]” […]

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